Appendice. Oggi faccio la guerra da spettatore
I miei amici del Comando sono venuti a raccattarmi. Io dormo in una buca, nel Vallone più oscuro e più sporco, quello di Boneti.
Dicono: – Vieni con noi. Si va a vedere la lotta sul monte Santo e sul Kuk, un inferno di artiglierie a confronto del quale questo del Carso è una bazzecola.
Sbuffa, sul sentiero, la bella automobile grigia. Io mi considero un istante: sporco, fangoso, l’elmetto che mi cade sulle orecchie, le fasce sfilacciate e vecchie.
Ma gli amici ridono.
Essi non mi portano in città, tra donne calzate di seta e bianche di trine, ma sul Planina, ed a vedere la guerra.
– Non occorrono gambali lucidi e divisa irreprensibile. E neppure del coraggio. In piedi, suvvia.
La vettura si lanciò a capofitto per la straducola, che conduce a Mikoli. Il Vallone era calmo. Qualche shrapnel tentava raggiungere la massa ferma e serena del cielo, ma il vento, aggraffata la nuvoletta giallognola, la conduceva, pianamente e dolcemente, a cavallo dell’atmosfera: «Carina, andiamo dove vuoi, ma fin lassù è impossibile».
I soldati d’artiglieria, affaccendati intorno ai pezzi, a pulire, a brunire, ad accarezzare, guardano l’automobile in corsa e masticano una parola: «imboscati».
Quelli di fanteria, che fanno nel Vallone il loro turno di riposo (e ogni mattino si svegliano con qualche compagno di meno) giudicano con severità l’albagiosa corsa della vettura: «Cotesto è un marciare che non costa la vita. Bella guerra, quei lazarun!».
La polvere ci nascondeva un poco agli sguardi ostili ed alle mormorazioni.
La strada di Marcottini solitaria, bianca, si stacca, con rammarico, dalle vecchie trincee del ’15 e del ’16, per quelle ore chiuse e combattute che vissero insieme. Ora, l’italiano cammina da padrone. Pulisce, raccoglie, distrugge e non un ricordo resterà, tutt’intorno, della guerra sotterranea, che qui si faceva. Le case del paese sembrano raddrizzarsi, fiere ora che sugli usci il soldato italiano ha scritto nomi e canzonette. Le prode dei fossati, una volta, si rivestivano frettolose di erbe, con un lavorio notturno che forse, non sola, la strada intendeva. Perché, di giorno, un piovere di ferro e fuoco faceva parer morta ogni cosa, quando non scendeva una di quelle granate incendiarie che spargono intorno luccioloni ardenti e un fumo nero e soffocante. Di notte si godeva anche la gioia dell’uomo vivo, che sulla massicciata veniva a bere aria e scioglier le gambe. Qualche canzone sommessa, pipe che ronfavano, senso di largo. Quegli uomini potevano finalmente spaziare, con tutta la persona, fuori di un luogo chiuso e soffocato.
Verso l’alba i cannoni, piazzati dietro il paese, cominciavano a far la voce grossa: «Copriti italiano, o ti frantumo». E la fanteria honwed abbandonava subito la strada per la trincea, perché la musica sarebbe cominciata presto anche di là da S. Martino. Il cannone italiano, anch’esso non ischerzava.
I miei compagni del Comando ridevano e cianciavano. Io guardavo la strada, i fossacci, le buche delle antiche granate, le trincee, sulle quali il ferro spinoso s’aggrovigliava in matasse. Le croci segnavano il passo tra le rocce, sulla terra pura, sui bordi della strada, quale piccola e rozza, quale grande e levigata, ciascuna a guardia di un tumulo o di un rigonfiamento, come se la terra, in quel punto, intendesse partorire qualche vita nuova o un dentone di roccia assetato di luce, e, con due tavole incrociate, ne desse annuncio.
Le case di S. Martino, diroccate, tronche, cadenti, sarebbero proprio morte, se il verde dell’edera, camminando da muro a muro, non avesse chiuso i buchi più angosciosi che le granate aprirono. Dove ieri posava una culla o un letto fresco di lini l’edera s’è distesa, placida e solenne, quasi con la coscienza di compiere un pietoso dovere.
Ma i topi, dove non c’è il sole e l’uomo, la fanno da signori. Tra le case e le vecchie trincee, vanno e ritornano, fermandosi di tanto in tanto, ad orecchiare, se un rumore o un’ombra li sorprendono allo scoperto.
Qui, la lotta fu furibonda. Le nostre truppe primaverili si gettarono tra casa e casa, sotto un fuoco di mitragliatrici e d’artiglieria, distruttore. E gli honwed cedevano, ogni giorno, un quadrato di terreno, un elemento di trincea, uno spicchio di bosco.
No, la guerra non è bella, quando l’uomo s’è affezionato a una casa, ad un orto, e ivi ha lasciato qualche goccia di sangue fresco e giovane.
L’automobile ha dovuto soffiare, urlare, fischiare per aprirsi un varco nelle strade ingombre della II Armata.
Carri gonfi di legname, di potrelle, di lamiere vanno, traballando, verso l’Isonzo. Salmerie, cariche di marmitte e di damigiane, si confondono nella polvere, costeggiando, calme e lente, i fossati. Ma gli autocarri disturbano le belle processioni e sconvolgono le colonne, con quel fragore assordante e moderno, che i muli non vorrebbero sentire.
Le colline erbose del Collio sventolano sulle cime le bandiere delle biancherie, che asciugano al sole. Pittoresche. Ma verso est grandeggiano le moli nude del Sabotino, del Kuk, del Santo: groppe ulivigne, a cui le fumate delle granate danno aspetto di vulcani.
A Veroglie, la vettura è costretta a fermarsi.
Le batterie nostre si nascondono sul costone del monte e sparano a fuoco accelerato.
Un fumo bianchiccio sale a giuocar con le piante e le nasconde, per qualche momento, allo sguardo.
Imbocchiamo un camminamento, che va ad affacciarsi sull’Isonzo e sui monti, dove ferve la battaglia campale.
Il costone del Planina, pingue di castagni e di querce, soffre il peso di una fioritura rigogliosa ed estiva.
Un vento forte, e il costone scrollerebbe, con gioia, tanta inutile festa di verde.
Sul Kuk, i fiocchi bianchi appaiono e scompaiono, numerosi e di varia grossezza.
Tra quel fumo, in mezzo alle rocce, la fanteria avanza.
La fanteria! Non si vede, di qui, un uomo, solo. Tra cespugli e roccia, l’uomo è così piccolo che si perde. Le granate, che cadono a centinaia, paiono accanirsi solo contro la pietra, che è secca, scagliosa e puntuta: un cimitero di frammenti ossei abbandonati.
E le mitragliatrici sembrano macchine, poste lassù, per qualche fatica che l’uomo solo non può fare. Ronfano, strepitano, s’arrovellano, con un rumore ineguale, ma continuo, che ha dell’elettrico. Tratto tratto, un silenzio. Poi, di nuovo, nel fragore della battaglia, quel ronfare sinistro ricomincia.
Dicevano i miei amici del Comando: – Saliamo sul punto più alto della collina. Di lassù, lo spettacolo deve essere superbo.
Io non risposi.
Io indovinavo, tra quei pennacchi di fumo, uomini che avanzavano carponi, la baionetta irta, gli occhi sanguigni, e mi sentivo triste.
Sei mesi prima, sotto una valanga di fuoco, anch’io camminavo coi miei uomini sulle balze del Pecinka. Febbre, sete, io aveva allora perduto il mio equilibrio fisico e morale. Ma c’era nel mio gesto, nella mia corsa, la mirabile ubriacatura dell’azione. Si andava a morire, con una rassegnazione ferma, con una passione ragionata e, dentro, non c’era fibra che non scoppiasse di orgoglio: sono italiano, io combatto, io lascio ai miei figli un’eredità di coraggio ed un esempio di fede.
Una voce disse dietro di me: – Ora, fanno lo sbalzo i bersaglieri.
Oltre Zagomila, la tempesta dei rumori e degli scoppi era furibonda. I piccoli calibri nemici e le mitragliatrici tamburellavano l’aria, che raccoglieva quella varietà d’echi e la diffondeva quasi con frenesia.
Grigi, piccoli, a gruppi, i bersaglieri avanzavano. Il sole li toglieva da una zona priva di bosco, e li spingeva, di corsa, sulla cresta del Kuk, ma, giunti lassù, l’ombra scura, che le granate avevano scavato, li ricacciava indietro, disordinati e spauriti.
Ricordava di averli veduti sfilare di corsa davanti al Duca d’Aosta, in una delle sacre feste di guerra, sui campi del riposo: alti, giovani, biondi.
Un giorno, sulla strada tra Mestre e Padova, (dove il canale color ferro, alle scalinate delle ville che si affacciano sulle sue acque, accarezza il lichene ed il muschio sempre verdi) vidi un battaglione di reclute in corsa. Fez rosso, mappa azzurra, divisa di tela, i bersaglieri scandivano mattinalmente il passo. Nell’atmosfera ordinata, nell’elastico slancio di questi ragazzi, vibrava una bellezza giovane, incatenante.
Ora, i telefoni squillavano: – Insistere; non dar tempo e quartiere al nemico, si suoni ancora l’assalto.
Il grigio delle divise spiccò, di nuovo, tra i denti bianchi della roccia insanguinata. Parve, per un minuto, esitare, incerto; ma, o un grido o un suono o una morte, li ricacciò tosto, veementi, sulla cresta del monte. Sostarono qualche momento lassù. Granate di grosso calibro li afferrarono a gruppi, a schiere, a plotoni. Un’ondata sopravveniente di grigio-verdi trascinò fumo, polvere, baionette e uomini al di là della cima.
– Dio sia lodato! – disse il comandante di divisione. E portò l’apparecchio telefonico alle orecchie: – La… Brigata Bersaglieri sta rotolando oltre il Kuk. Allungare il tiro di mezzo chilometro!
Il monte Kuk sembra, ora, quasi calmo. Il nemico lancia qualche grossa granata su Zagomila e sulle strade che vi conducono. Ma Zagomila è un ammasso di macerie.
Non più quelle sue finestre aperte al sole e quelle sue stalle, che vomitavano fiati torbidi e caldi.
L’asino, che trasportava legna a Plava, blando e calmo, è anche scomparso.
Ora, salgono i muli il costone, ma in lunga fila e carichi di ben altro che legna da ardere. Essi recano il combustibile all’uomo, che consuma le sue energie in una lotta sovrumana, e che ha bisogno di sviluppare, mangiando, alte calorie.
Questi uomini non sembrano tolti, a spizzico, nei vari paesi d’Italia, ma nati quassù, su le balze cineree o rossigne, e messi in fila, ad arginare una fiumana devastatrice.
In fondo, nella valle, scorre il sacro fiume. Acque già bagnate di sangue, ma che scivolano tuttavia, tra le ripe, giovanili e pure – come se questa freschezza di verde che le attornia, metta in esse una consapevole voglia del mare.
Un razzo verde si stacca da una quercia alta sul monte e quasi subito muore.
– Allungare il tiro – così ora, parla la fanteria.
Tutte le batterie del Planina e del Korada rispondono, accelerando il tiro.
Il sole cerca la sua cuccia, ora che ha visto tante baionette insanguinate e slancio di uomini. S’è nascosto dietro il Monte Santo, in casa del nemico, ma le nuvole, accavalanteglisi attorno, lo conducono via verso il Carso, verso l’Hermada, sul mare. Qualche mitragliatrice fa ancora qualche raffica di fuoco. Ma, sulla sera, e poche, esse non hanno più quel tono aspro ed energico di qualche ora fa. Il rumore che esse producono mi fa ricordare quello che generano, nei nostri paesi, i materassai quando battono, ritmicamente, la lana.
Abbandoniamo il Planina. La bella automobile si riscalda, si riattiva, come un cavallo che sa di tornare alla stalla, dove la mangiatoia lo attende.
Ma la strada è ingombra di salmerie e di soldati.
La nostra automobile, che fischia e trombetta per passare, incontra l’ostacolo di una brigata che va in linea.
– Bella, la guerra costì!
– Un saluto alle gonne di Udine!
– Guadagnato il nastrino della campagna!
Tutti vogliono dire qualche parola: un frizzo, un’ironia, un’insolenza.
Sono ormai rassegnati alla sorte che li attende. Sanno che chi è fanteria, è assalto, è sacrificio, è tomba abbandonata. Ma l’automobile che scende in città e conduce tra lini bianchi e al sicuro mette il fante proprio di malumore. In verità, la sorte di questi signori, che non perdono proprio nulla, è invidiabile.
A Cà delle Vallade è appena giunta una brigata, di quelle che il vocabolario della guerra chiama sfessate. Ha fatto le azioni di agosto, settembre, novembre e dicembre sul Carso: ora il Monte Santo le ha dato l’ultima mazzata.
Laceri, fangosi, le divise a brandelli, i superstiti hanno perduto l’aspetto e la fierezza di ieri.
Abbandonati sui fossati, cantano in coro una canzone triste e dolce, molto in voga tra i fanti: Ladra.
Le gambe di questa moltitudine colca paiono di morti. Le loro facce barbute, pallide, stralunate, hanno un’espressione, che il crepuscolo intorbida e fa parer truce.
La battaglia è finita.
Ora, non c’è, in cielo e in terra, la lotta violenta di qualche ora fa. Né granate scoppiano, né mitragliatrici ronzano.
E bisogna cantare. Se le braccia non hanno più forza, se il corpo è stracco e perso, se tutto il mondo è caduto, sorride, ora, la vita.
Vivere! Pareva un sogno, un ricordo lontano, una chimera irraggiungibile.
Essi hanno vuotato le proprie vene sui costoni dirupati del Kuk e vanno ora a riposo.
Le loro voci si staccano roche e bolze, il coro non ha un’andatura corretta; ma, nel crepuscolo ormai pieno, sotto le stelle mature di luce, la canzone passionale è gonfia d’affetto e sprigiona una miracolosa armonia.