Assalto a Nova Vas
Nova Vas sussultava come una cosa viva.
Nuvole enormi di fuoco e fumo e terra. Le esplosioni squassavano la terra, scotevano alberi, ricoveri, muretti, parevano persino frantumare la compagine dell’atmosfera, che esprimeva il suo strazio con voci d’ogni timbro, fino agli echi più lontani.
Il fischio delle schegge, lo schianto delle pietre colpite, il sordo suono dei colpi in partenza confondevano il raziocinio. Ci si stringeva la testa tra le mani, come chi, sentita sfuggire la coscienza di sé, si riconosca, irrimediabilmente, nel vortice di una misteriosa bufera. Uno scoppio succedeva subito ad un altro, intrudendosi nel frastuono provocato dal primo, sì che il clamore pareva continuo, come se nascesse da una sorgente del sottosuolo, ininterrottamente.
La furia rabbiosa del nemico spremeva all’intorno una mortifera musica di shrapnels, vocine che, nel fragore del nostro bombardamento, s’intendevano appena, quasi miagolii di gatti, smarriti in un’ora di temporale violento.
La mattina del 10 ottobre il fuoco diventa più intenso. Le linee nemiche sembrano un’ara ardente. Dove si rifugeranno gli austriaci? Saranno ancora in trincea? Qualche vedetta spara, ta-pum, il suo colpo, come a far sentire che ci sono e ci aspettano.
Siamo in mezzo a una nebbia folta, che conduce alle nostre nari un odore di cose bruciate e di polvere da scoppio. Aneliamo il momento di muoverci, di respirare, anche se il movimento e il respiro saranno mortali.
Ecco un port’ordine.
«Tenersi pronti! – scrive il capitano: – Ad un mio ordine, innestare le baionette e balzar fuori, come un uomo solo».
Un nuovo comando segue quasi subito: «Si rechi coi suoi graduati ad osservare la trincea nemica. Veda dove è possibile un varco per il suo plotone. Le raccomando il collegamento con la brigata Sesia. Sangue freddo e calma».
Alle due del pomeriggio, viene egli stesso a farmi le ultime raccomandazioni. L’assalto è fissato per le ore 14.50. Le lancette camminano, sul piccolo disco bianco, con vertiginosa rapidità. I soldati hanno preparato le loro robe. Sono pronti. Mi guardano negli occhi, come a cercarvi sicurezza. Io mi sforzo al sorriso, ma le mie parole, che vogliono muovere a gaiezza, cascano nel silenzio. Le fisionomie dei miei uomini, sembra, non abbiano mutato in nulla. Ma c’è in fondo alle loro pupille, come una velatura, un’ombra.
Quanti di costoro cadranno?
E io stesso, cadrò?
Siamo forti!, dico a me stesso. E, tosto, s’impadronisce di me una seconda coscienza, che addormenta gli istinti vitali e mi fa presentire nella morte un riposo dolce, che tutte le ansie di questi giorni logoranti riuscirà a placare. Senza lotta, il desiderio di vivere, di tornare cede a questa sensazione nuova, che mi fa tremare e pur m’invita come un piacere.
Così quietato, il dovere mi sembra più facile. E la responsabilità, che mi ossessionava, non mi preoccupa, come poco fa. Sento che assolverò il mio compito.
Ma, sottile sottile, in fondo alle vene più nascoste, serpicola il sangue di ieri, che viveva e amava con forza di giovinezza. Sembra, a un momento, che si sciolga in voce e dica: – Vivrai.
Il nemico, cessato il fuoco delle nostre bombarde, fa respirare le mitragliatrici. Sono poche. Ne devono essere saltate parecchie, soprattutto nel fortino triangolare.
E subito, i piccoli calibri di montagna e campagna iniziano un fuoco accelerato di sbarramento sulla nostra prima e seconda linea. Una granata mi sfonda un tratto di trincea e mi uccide un uomo. È ridotto in uno stato pietoso. Lo faccio adagiare in una barella, ma non ho tempo di raccogliere il suo ultimo respiro.
Un port’ordine di compagnia mi grida sul viso: – Fuori, signor tenente, fuori!
Lo sbocco non è vicinissimo; dobbiamo seguire la linea della nostra trincea per circa cento metri. Gli austriaci ci vedono e addensano un fuoco tremendo di artiglieria su di noi. Mi sento mancare il respiro, nella corsa. La polvere e il fumo mi acciecano.
Un uomo mi cade davanti, lungo disteso.
– Chi sei? Cos’hai?
La voce di Tognana frigna: – Sono morto, signor tenente!
– Che morto! Su, su, presto!
Lo afferro per il cinturone, lo costringo a rialzarsi. E via di corsa. Siamo allo sbocco.
Non ho la percezione esatta della corsa alla trincea avversaria. Ricordo che l’urlo dei feriti, la mia voce di incitamento a far presto, le grida di «Savoia» mi giungevano all’orecchio, come se lontane da me qualche centinaio di metri.
Entrammo nella trincea nemica, la scavalcammo. Pochi austriaci alzarono le braccia imbambolati: Rumân, Rumân!
Abbandonati i prigionieri nelle mani di un graduato e quattro soldati, scavalco il secondo parapetto. Cerco di non perdere i miei uomini e di mantenerli collegati. Ma, come se la corsa violenta abbia impoverito il mio sangue ed esso non circoli con ritmo vivo nei vasi, cado in terra, sfinito. Un fante che non conosco mi porge una borraccia. Tre o quattro sorsi, e sono in piedi, di nuovo.
Ora si ha l’impressione di non trovarsi più in terreno di combattimento. Dov’è il nemico?
Da una dolina, che abbiamo lasciata dietro, partono d’improvviso, alle nostre spalle, dei colpi di fucile.
È un gruppo di «tugnitt», che spara da una caverna.
– Fuori le bombe a mano, ragazzi!
Ma, come ci vedono, i nemici alzano le braccia. Sono una quarantina.
Le mitragliatrici non fanno più udire la loro voce recisa. La terra è tutta frantumata, bucata, sconvolta dalle nostre bombarde. Morti, qua e là, nelle giaciture più strane e angosciose. Cerco di collegarmi coi due plotoni di sinistra della mia compagnia, quando un fuoco vivo di fucileria mi invita a spostarmi a destra.
Sento la gola della nostra pistola-mitragliatrice che emette il suo rapido ghigno-pernacchia, nervosamente: ed accorro.
Un contrattacco furioso. I due plotoni che cercavo, appostati dietro un muretto, trattengono un paio di compagnie austriache che, spronate da ufficiali che non vediamo, tentano gettarcisi contro. L’aspirante Strafella manovra egli stesso la pistola, cercando di colpire giusto. Siamo tre ufficiali con circa settanta uomini. L’aspirante Samperi – che doveva cadere dopo qualche giorno – è seduto in terra e dirige il fuoco. Io non ho pazienza di imitarlo. Afferro un fucile austriaco e sparo coi miei soldati. Sono talmente eccitato, che non potrei star fermo in terra, come un cagnolino.
Gli austriaci, ad ogni scarica, indietreggiano. La pistola, manovrata con destrezza e senza fretta, apre, ad ogni colpo, brecce nella massa nemica. I sott’ufficiali austriaci premono sui soldati, li sospingono. Qualcuno, con lo staffile, li colpisce. E quelli, avanti. Ma sorpassano appena l’orlo della dolina, che la scarica li raggiunge e li sgomenta di nuovo. Gli ufficiali escono anch’essi e dispongono, visibilmente sorpresi dal nostro fuoco, delle squadre dietro un muretto, mentre i graduati continuano a sferzare i loro uomini. Vediamo chiaramente la loro manovra.
Le squadre nemiche cominciano, d’un tratto, un tiro discontinuo, ma preciso contro di noi. Quelli che mostrano la testa, cadono. Abbiamo già qualche morto. Non dimenticherò più un soldato, a me ignoto, che avevo fatto spostare verso sinistra, in un tratto di muretto spezzato. Un colpo di fucile gli entrò nel cranio, mentre, ginocchioni, mirava: e restò nella posizione di crociatet, rigido, la testa piegata sul petto.
E chi scorderà quel soldato della 5a che i compagni chiamavano il «prete»: grassoccio, sbarbato, compunto, che baciava la mano al cappellano e rispondeva, per suo conto, durante la messa: «dominus vobiscum», nell’atto di distribuire le cartucce, appena giunte, ai combattenti? Pareva un venditore di sagra: – Chi vuole? chi vuole?
E gettava a destra, a sinistra, con la sua bella faccia di tranquillo, il piombo prezioso. Avrebbe voluto che tutti si voltassero a raccogliere le cartucce, che egli metteva all’incanto con la sua voce blesa. E poiché nessuno gli badava, ripeteva a tutti: – Cartucce, cartucce!
Come un venditore di piazza. Perché non lo proponemmo per la medaglia quel ragazzo semplicione? A guardarlo: o che può fare costui – ti veniva pensato – con la sua anima di topo? E, invece, era lì, alle nostre spalle, sereno come in piazza d’armi.
Gli austriaci non si limitarono a pigliar di mira le teste che si mostravano e rovesciarle, ma cominciarono un tiro assiduo di bombe col fucile, che ci cadevano a piombo sul muretto e rovesciavano gli uomini come birilli.
Poco mancò ch’io stesso non restassi vittima di una di queste «boccie d’inchiostro», come le chiamavano i soldati. M’ero spostato un momento per soccorrere il mio soldato Spagnolo, conciato malamente da uno shrapnel, quando una spinta violenta da tergo mi gettò in terra. Nello stesso momento, una voce mi urlò addosso: – Non si muova!
Senza che io me ne accorgessi, una bomba mi era caduta quasi tra le gambe. Volle fortuna che il sergente Capitini del 3° plotone se ne avvedesse. Fu lui che mi gettò a terra. Tra la caduta e lo scoppio, queste bombe a miccia lasciano correre qualche secondo. La destrezza e il coraggio di Capitini mi salvarono.
E poiché quelle bombe potevano generare del panico, affidai ad un soldato del mio plotone l’incarico di seguirle nella loro traiettoria, per far spostare gli uomini a tempo. Nel frattempo, era giunto anche il capitano Balestrino. Quando lo vidi, sarei corso ad abbracciarlo. Mi pareva ch’egli portasse più che cento mitragliatrici, più che la vittoria, poiché io ridiventavo un subalterno.
Gli chiesi, a mezza voce, dal mio posto di combattimento:
– Rinforzi?
– No, bastiamo noi.
Quando cadde la sera e il fuoco nemico, al lume discontinuo dei razzi, diminuì d’intensità, il mio caporale Scalerà mi ha portato un fascio di musica manoscritta. Egli è un appassionato ricercatore di cimeli. Da più di un anno, combatte, e quando giunge nella trincea nemica, il suo occhio investiga, fruga, scava.
– Che musica è questa?
Erano pagine di un’edizione tedesca della Manon di Puccini.
– Salve, piccola Manon! Tu ci rechi il puro saluto di casa nostra!
Il sottotenente Manera, che è un musicista appassionato, ha leggicchiato le prime note. Alle labbra, gli è tosto salito un gorgo di canto. Il fuoco accennava ormai a cessare. Gli austriaci avevano capito che la posizione era solida e desistevano. Qualche shrapnel scoppiava alto. Tra i bioccoli delle nuvole, che la luna arricciava, la sua rosa di fuoco pareva d’oro.
– «Donna non vidi mai… ».
Tognana, intento con gli altri al trasporto di sacchi a terra nella nuova trincea, si è fermato ad ascoltare il canto sommesso di Manera, e quando la romanza è cessata, ha gridato: – Abbasso l’Austria!
Se gli italiani combattessero con la musica in testa, non vorrei proprio essere un ufficiale degli honwed!