Corridoi di morte

Come hanno voce stamane le allodole! Abbiamo dormito alla meglio nei ricoveri dell’artiglieria da montagna. È appena chiaro a oriente che i cannoncini nemici cominciano a cacciar granate nella nostra dolina. Un imbocco di camminamento è ridotto un ammasso inconoscibile di sassi e sacchetti sventrati. Chi scende di lì deve fare una corsa folle, se non vuol essere colpito. I port’ordini, che conoscono il gioco, aspettano l’ultimo colpo e fanno lo sbalzo. Ma qualcuno vi ha steso le gambe. Un alberello resiste, impavido, alle granate e agli shrapnels che gli scoppiano attorno. Si scuote dalla radice al vertice, fa l’atto di chinarsi fino a terra, e poi su, di nuovo, se pure sfrondato e diramato. V’ha ormai, nel suo tronco, qualche centinaio di pallette; ma, se tornerà la primavera, la linfa le renderà tutte innocue. Questi alberi del Carso! Se ti domandi chi li nutre, ecco un enigma! Quella poca terra rossa che, quando piove, ci si attacca alle caviglie, e non c’è acqua che la sciolga, ha una profondità di pochi centimetri, e non può certo offrir loro alimento e vita. E questi piccoli campi coltivati, quanto anche sono miseri! Non un segno che li dica vivi o, comunque, respiranti. Se dissotterri una radice, t’accorgi che i filamenti biancastri non hanno quel tremito lieve ché rivela la vita. Il 1° Battaglione ha avuto dei morti. Non sono molti, ma è morto il sottotenente Capanni, della 1ª Compagnia.
– Quante croci – mi diceva un giorno – su questo Carso! Nessun sorriso li raggiungerà più. Gli era morto un fratello sul Sabotino, qualche giorno prima.
– Lo vedi? – mi diceva, mostrandomi la catena difensiva di Gorizia, dal Sabotino al Podgora – quel Sabotino là ne ha mangiati di uomini!
Un giorno, sul bosco Lancia, entrammo insieme nella vecchia trincea austriaca. La rovistammo in ogni angolo. Dietro la trincea, notammo alcune croci di austriaci caduti, con nome, cognome, reggimento. – Gli austriaci hanno sacri i morti – mormorò. – Chi l’avrebbe
creduto!
Sebbene coraggioso (se lo avessero sfidato a una impresa, dove la morte fosse certa, non avrebbe esitato un minuto, così grande era il suo amor proprio!) aveva un terrore grande della morte. Lo spaventava sopra tutto la sepoltura. – Oh, il chiuso e questa terra odiosa che ti copra tutto! – urlava, quasi.
Il giorno prima che si salisse a Oppacchiasella venne a cercarmi. La nostra era un’amicizia recente, ma che prometteva di divenire salda.
Mi disse: – Scambiamoci l’indirizzo di casa nostra.
Gli risposi: – Hai voglia di morire?
Ed egli, ma ridendo: – Può darsi.
Io gli risposi che era pazzo. E gli rifiutai il mio indirizzo.
– Tu mi porti scalogna – risi.
Ma egli crollava il capo. Gli occhietti piccoli gli ridevano stranamente. Non lo avevo mai veduto ridere.
È morto poco prima dell’assalto, nell’atto di ispezionare e riordinare i suoi uomini. Mi dicono che non pronunciò parola.

Due ufficiali sono stati mandati di pattuglia dal nostro maggiore. Pare che il nemico si ritiri. Bisogna dunque esplorare i suoi movimenti. Ma uno shrapnel, mentre uscivano dalla dolina, li ha feriti entrambi. Marrone ha acceso la sigaretta e dice di non sentirsi male. È ferito all’intestino. Carnevali ha due dita spezzate e una coscia passata da parte a parte. È svenuto. Dieci minuti fa, parlavo con lui della pace, che rivedevamo, con la fantasia, quale i libri la raffigurano: donna e bellissima. E forse entrambi si sognava che, da un minuto all’altro, giungesse una voce in dolina: «Trento e Trieste sono nostre! Ragazzi, serrar sotto, ché ciascuno andrà a casa sua».
Invece ci porteremo avanti stassera stessa. È giunto, in questo momento, l’ordine del cambio. Prenderemo posto in prima linea, a sinistra della strada di Oppacchiasella. I soldati tirano un respiro di sollievo. Saremo disturbati da qualche barilotto, ma l’artiglieria ci lascerà in pace. Abbiamo avuto morti e feriti, senza vedere una faccia di austriaco. E non c’è cosa più vile di una morte che ti aggraffi quando sei per chiu dere gli occhi nel sonno o per scoperchiare una scatoletta di carne.

È una notte di quelle che si leggono nelle pagine dei romanzi romantici. La volta del cielo freme di stelle, che pare si accoppino, voluttuose, così lontane dalla tragedia nostra, che ad esse, se la vedessero, sembrerebbe appena baruffa. La via lattea s’è messa in cammino, con un codazzo di stelline minuscole, ma irrequiete, che pare tentino ostruirle il passo sul cielo. Ma essa va, maestosa e indifferente. Stelline che ridono, come occhi di bimbi felici.

I razzi, che si levano dal campo nemico, ci avvertono che Cecchino ha arretrato sulla sinistra, mentre tiene ancora le posizioni di destra. Ma finché queste non saranno espugnate, non
potremo avanzare.
Penetriamo nella trincea austriaca, conquistata dal primo battaglione. È ancora piena di cadaveri, di gavette, di giubbe lacere e sporche. Chiazze di sangue tra il fango. Cartoline scritte e bianche sparse in terra. Un morto, dalla faccia di un rosso fuoco, ha ancora gli occhi sbarrati. Le mosche gli tremano tra i peli della barba rossiccia, dando l’impressione che la barba si muova e che anche gli occhi guardino, vivi. Ha una gamba storpiata da una scheggia, il sangue si raggruma tanto lentamente, che pare spicci or ora, fresco. Un ufficiale giace sul fianco, come seduto: il berretto, spostato sull’occhio sinistro, nasconde la faccia terrea quasi per intero. Come persona che mediti. Un braccio, nudo fino al gomito, esce da un groviglio di stracci e di fango. È di una bianchezza lattea e ricorderebbe un braccio di donna, se il muscolo non fosse teso in uno sforzo di disperazione supremamente virile. Le unghie si affondano nel fango, in un gesto di energia, che par vivo tuttora.
Più oltre, il fango e l’acqua hanno fatto pozzanghera. Alla superficie affiora il torso di un cadavere. Non è possibile evitarlo, chi voglia passare. Il tanfo rende l’aria irrespirabile. Con le mani, chiudiamo le narici: ma l’odore è così forte, che penetra nel cervello e, come un cuneo di materia estranea ci picchia all’occipite.
Per non mettere i piedi nell’acqua, li posiamo – ma adagio, con religione – sul cadavere che affiora. Il maggiore ha lasciato cadere la sua scarpa chiodata sul petto rigido; io, che lo seguo, cado invece con la mia sul ventre floscio, che cede, svesciando un gorgoglio diffuso che pare un lamento.
Ecco una trincea, che avresti detto imprendibile. È scavata nella roccia pura ed ha pareti possenti. Ma è caduta. L’impeto delle nostre fanterie ha ormai facilmente ragione della baldanza austriaca. Mi dicono che i mitraglieri nemici sono stati trovati legati all’arma, perché falcino fino all’ultimo momento. Vorrei vedere i loro occhi, nell’istante in cui passano
sull’arma l’ultimo nastro.
Il 3° battaglione, che ha sostituito il 1°, ha fatto ancora qualche sbalzo in avanti. Noi del 2° troveremo una trincea mediocre, forse appena un muretto; ma avremo gli austriaci a pochi passi e sarà una fortuna, se, come si dice, toccherà a noi cacciarli anche più lontano. La meta è Castagnevizza: quanta strada da fare!

Le doline nemiche cambiano nome, una per una. Noi non sappiamo come gli austriaci le chiamassero e, del resto, è ben giusto che il conquistatore dia la sua impronta ai luoghi su cui mette piede. Mi duole che non abbiano dato il nome di Capanni alla dolina, dov’egli è caduto. Avremo la dolina Pavignano, la dolina Bernasconi, la dolina Panizzi; dai nomi di un caduto e di due comandanti di battaglione: non quella del piccolo romagnolo, che non aveva paura della morte, e pur tremava al pensiero di dover restar chiuso sotto la terra rossa del Carso.
In prima linea, riprendiamo tranquillità. Gli austriaci sono intenti a rafforzare la trincea, noi facciamo altrettanto. Sicostruiscono camminamenti e ricoveri, risaniamo il campo di battaglia. Io ricevo tra mano i taccuini, la corrispondenza, i portafogli dei soldati morti. Mi indugio, con curiosità morbosa, a leggere le cartoline che i caduti hanno ricevute e quelle scritte o cominciate a scrivere, e non più spedite. Un caporal maggiore scriveva: «Cara mamma, si va a far l’azione; ma ho il sicuro presentimento di non morire. Ci rivedremo per la licenza invernale». Un soldato scrive alla madre: «State tranquilla che noi stiamo bene del tutto. Per il dormire, ricoverati sotto i ricoveri, coverti di zinno e gi abbiamo tre coverte di
lana per ognuno».
Un altro – certo un toscano – descrive un assalto di qualche mese prima. Scrive al fratello artigliere: «S’aspetta questo ordine di avanzata. Andrà bene? Speriamo. L’ultima volta che avanzammo, la mi successe bella. Il fuoco delle mitragliatrici e delle lanciafregnaccie (noi chiamiamo così i lanciabombe) era tanto forte, che il capitano disse: «A terra, fìeoui» (è un piemontese, questo nostro capitano bono bono). S’era in un campo di patate e io, nell’attesa, sai tu che feci? mi riempii di patate il tascapane che poi le mangiammo lesse con l’olio, a riposo. Speriamo anche ora di trovare le patate invece delle pallottole».
Un altro scrive alla moglie: «Ti raccomando le bestie. Se non le tieni in caldo, con questi freddi, non sappiamo cosa ci possono capitare. Noi anche lo si patisce, ma siamo soldati…».
Uno scrive al padre: «Padre mio, vostro figlio che è in guerra e in punto di morte, vi prega con la voce della figliolanza: riconciliatevi con mia madre e vostra moglie. Non la fate soffrire; che, se soffre la mamma anche il suo figlio soffre, come è naturale».
Una sorella manda immagini sacre e dice: «Tutto il paese prega per te». Ritratti di fidanzate, di bimbi, di mogli, che guardano, con quegli occhi stupiti delle fotografie di paese. Qualcuno ha anche il proprio ritratto in borghese: fotografia di un bonaccione in cravatta e cappello, con accanto una moglie grassoccia e due bimbi ben vestiti.
Il grigio-verde ha sveltito anche le sagome più tozze. Questi contadini hanno perduto, sotto la divisa, quella loro durezza nativa. E nell’atmosfera della guerra, si muovono con una grazia bersaglieresca.
Recano anche il corpo di un austriaco. Sopracciglia folte, tra le quali il sangue s’è raccolto, baffi e barba quasi bianchi. Mi danno il piastrino, sul quale, in ungherese, sono scritti nome, cognome, distretto, data di nascita. È del 1872. Faccia di contadino di montagna: gambe arcuate, corpo tozzo, mal chiuso nella giubba di fatica. Sarà seppellito coi nostri, sotto una
sola croce, con su scritto a lapis copiativo il numero del nostro reggimento. Qui verranno, tra qualche anno, a pregare madri e mogli nostre, bagnando questa terra di lacrime e baci. Anch’egli, il contadino ungherese, avrà il suo fiore e la sua lacrima; e la madre italiana non saprà mai che, sotto la stessa croce, giacciono forse insieme l’ucciso e l’uccisore, suo figlio
e il nemico.
Ho detto al mio giannizzero di conservare il piastrino austriaco. Non potrebbe mio figlio cercare un giorno tra le carte ch’io gli avrò lasciate, e fermarsi su quel nome di nemico, con curiosità e, sentendosi mosso dal desiderio di paesi lontani, correre quando che sia a cercare il villaggio ungherese, dove i figli dell’honwed ricordano ancora a tavola, dopo tanti anni, il padre caduto sul Carso? Ci sarà, in quella casa, un telegramma ingiallito che dice: tal dei tali, disperso. Mio figlio recherà a quella famiglia una conferma di morte e un ricordo. Una cosa triste e una cosa rara. Forse quei montanari di Transilvania lo vorranno ospite al loro desco. E mungeranno per lui la vacca più bella o gli faranno dono di qualche rustico intaglio ungherese.