Domande

C’è tempo a tutto, quando si è in un ospedaletto, tra coltri riposate e calde, e il sole, accarezzandoti le mani e il volto, pare che ti ribattezzi.

Anche ad un esame di coscienza.

Scritte le lettere a casa ed agli amici, scambiate le impressioni dell’offensiva coi colleghi e sfamato, intendi e discuti le domande che vengono su, e ti fanno, nello stomaco, ingorgo:

– Sei sicuro di aver fatto bene il tuo dovere? Di aver dato, di te, sempre, la parte più buona? Di aver lasciato, tra i tuoi soldati, il ricordo di un carattere fermo, di una coscienza onesta? Di essere stato, infine, un esempio?

Rispondevo:

– No. Potevo far meglio.

Infatti:

– Perché, nella dolina Pavignano, il giorno 15 settembre, prima anche di mettere a posto il plotone, mi incavernai con l’attendente, e at­tesi al mio pranzo? Avranno, i miei uomini, detto tra loro: «Costui è un egoista e un pau­roso».

– Perché, quando funzionavo da aiutante maggiore, tanto raramente andavo a vedere gli uomini del mio plotone, che pure mi avrebbero fatto festa? L’idea stupida di non muoversi dal ricovero, se non quando te lo comandano, frenò sempre il mio impeto buono; ma i soldati, ter­ribili giudici, avranno detto: «il suo affetto non è sincero; egli non s’interessa di noi».

– Perché, nell’abbandonarli al loro destino, per scendere all’ospedale, non offersi a ciascuno la mano, non chiesi loro un ricordo, non mi com­mossi?

Molti di loro, tutti forse, saranno morti. O quei pochi, che torneranno alle case del proprio paese, con costoro, io non potrò rifarmi mai più.

Abbiamo vissuto insieme notti e giorni; ci siamo, per quanto la guerra lo permette, scam­biati pensieri ed idee; c’è stata, tra noi, una corrente viva di simpatia umana, che, in certi momenti, sopratutto, appariva robusta, profonda, duratura.

Ma com’era vano il mio rimprovero! Per quanto mi sforzassi, non sentivo, in fondo al mio essere, l’ombra della pena.

Tutto giusto: io non avevo avuto, per i miei soldati, certe attenzioni che, appunto perché pos­sono costare, sono le più sentite; ero stato, o egoista o disattento; li avevo infine lasciati in quel terreno di morte, senza dolore visibile o rimpianto.

E pure nessuna rispondenza, dentro di me, a questi sforzi cerebrali di ammonimento!

Un giorno, a Versa, vidi un soldato del mio battaglione contrattare, in una bottega, un col­tello ed una forbice.

Gli domandai perché comprasse, alla vigilia di ritornare in linea, siffatti arnesi.

Rispose: – Il temperino serve per innestare, la forbice per potare. E averli lassù, sarà come un buon augurio. Mi parrà di portare, in tasca, un cin­cinino di pace.

Così io. Sono stato a lungo in prima linea, ho corso rischi gravi, ho in somma fatto la guerra; ma, bene addentro, avevo, già pronti, gli arnesi della pace, che mi potevano bensì portare fortuna, ma che certo mi vietavano quella par­tecipazione convinta, quella comprensione co­sciente, quella affettuosità disinteressata che, sole, avvicinano in effetto un uomo all’altro, creando un legame schietto, di vera fratellanza.

Io avevo combattuto, ma con un’idea sempre fissa: di ritornare.

La guerra, l’hanno fatta i fessi, dicono i fanti, quando vedono gli automobilisti, i crocerossini e i borghesi. Ma io non sono, in quel senso, un vero fesso, perché non mi sono mai rassegnato interamente e decisamente a morire.

Ho fatto il mio dovere, ma con i sensi svegli e la coscienza vigile.

Io ho badato sempre a dove mettevo i piedi.

Ma, dunque, bisognava morire?

Ora, che sono all’ospedale, e, almeno per qualche tempo, al sicuro, provo un sollievo fisico, una beatitudine, che mi fa sentire lieve e bella ogni cosa.

L’atmosfera sa di garze insanguinate, di acidi, ma io riesco a filtrare, con questa disposizione alla felicità, i cattivi odori, ed anche le dure pa­role dei medici.

Il sole reca, dalla finestra aperta, ondate di aria sana, fresca; un sentore di fieni lontani lontani, una gioia di parole cantate, non so dove e da chi, che mi tiene i sensi, come sollevati, che mi fa sembrare di essere io stesso una par­ticella aereosa, che possa muoversi e volare, con la docile volubilità di una piuma.

Su tutti i ricordi o rimorsi, una verità conta e mi inebria:

– Io sono vivo.

Che è come una comunicazione calorosa e ininterrotta del sangue al cervello ragionante:

– Vivo, vivo.

I morti sono lassù, sotto la terra ghiaccia, al riparo di una debole croce.

I vivi possono ancora respirare, cantare, chia­marsi per nome; e, sì, dirsi anche che si vogliono bene.

Perché mi pare, ora, di poter veramente amare il mio simile, anche se ignoto ed estraneo; e di poter pronunciare, senza odio, il nome di tutti quelli che stanno a casa.

Ma questa bontà e questo gusto dell’amore me li smorza, in sul nascere, il Direttore dell’ospedale, quando, dopo tastamenti complicati e ascoltazioni, conchiude:Sottotenente Puccini. Tra sei giorni, sia messo tra i disponibili. Convalescenziario di Treviso.