Gran rapporto
Non è il vento, questa sera, che sommove le tende dell’accampamento, ma la mano del fante. Arrotolare le coperte e sciogliere i teli uno dall’altro, ecco un’operazione non facile. Anche i bottoni resistono nelle asole, ostinati.
Com’è duro abbandonare un luogo, dove abbiamo vissuto diciotto giorni tra risa, canti e bevute!
Anche gli ufficiali, curvi sulle loro cassette, dove, ammucchiata, la biancheria si confonde alla corrispondenza, non sanno staccarsi dalla tenda disagiata, nella quale frusciavano la notte i topi, ma s’intrudeva il mattino, blando e dolce, il sole di settembre. Rivedremo – Dio la maledica! – Oppacchiasella. Ma gli assalti non saranno più incruenti come quelli che per istruire i complementi sferravamo sulle balze del Monte San Michele. Lassù, sulla vecchia trincea austriaca, si giungeva ansanti, ma ridenti, ché non ci aspettavano le mitragliatrici e le bombe a mano. E quei topi, che frugavano, ansiosi, le buche, in cerca di rifiuti imporriti, non ci mettevano proprio paura.
I reticolati contorti insidiavano la nostra corsa, ma dal ferro spinoso ci si scioglieva con calma, tirando dalla pipa succose onde di fumo. E la trincea si conquistava sempre.
Qualche ufficiale attende alla toilette. Poiché c’è anche una toilette di trincea e molti non salirebbero tranquilli, se il loro abbigliamento di guerra fosse goffo o ridicolo. Il tenente Terranova, che comanda una sezione di mitragliatrici, ha fama, nel battaglione, d’irreprensibile e s’è posto nelle mani del barbiere, con l’intenzione di farsi rubare qualche ora. Il suo sguardo, nel momento solenne in cui gli hanno legato l’asciugamano al collo, assume una serietà che potrebbe dirsi drammatica.
Cerniti, aiutante maggiore del battaglione, abbandonati speroni e diagonale, s’è stretto in un costume di guerra, che lo abbraccia come una guaina. Viene la tentazione, guardandolo, di domandargli: – Soffochi?
È l’unico ufficiale che ha rinunciato all’elmetto, forse perché egli è anche l’unico che, potendo affacciarsi su uno specchio, ha considerato che l’elmetto è il meno estetico dei copricapi. Invano, la voce grossa e le mani irrequiete del suo giannizzero Carrozzo, lo tormentano. Cerruti, con un gesto che deve essergli famigliare fin dai tempi in cui dirigeva il lavoro dei fazenderos nell’America del Sud, ha troncato al suo soldato ogni buona intenzione.
L’ordine di operazione non ha sorpreso nessuno. Quando il maggiore Mantellini ha chiamato gli ufficiali del 2° battaglione a rapporto, e s’è visto che, tra le mani nervose, gli giuocava un rotolo di pezze da piedi (carte topografiche), abbiamo intonato, a bassa voce, la canzone famosa:
Addio, mia bella addio…
Si aspettava da un giorno all’altro, ma che venisse d’improvviso, e tanta pioggia gli facesse corteo, quel benedetto foglicino! La collina del Cappuccio, dopo la conquista d’agosto di tutto il sistema difensivo goriziano, era un luogo sereno, di pace. Si udiva appena l’urlo di qualche granata, che cercava i rifornimenti sulla strada di San Martino. Gli ufficiali avevano tende che ricordavano, sebbene molto in piccolo, sale di case patrizie, con divani e mobilio, ancora odorosi delle gallette che avevano contenuto: baracche da mensa, che avrebbero fatto, con uno sforzo di fantasia, pensare alle sontuose imbandigioni dell’esercito acheo se, anzi che bicchieri di latta, avessero risplenduto alla luce delle candele coppe d’argento e di oro.
Abituati a una vita meschina, e salire in trincea ti parrà natural cosa e facile. Ma le gioie di una mensa copiosa, la soddisfazione di avvicinare alla bocca un tovagliolo che non trema, il gusto di un sorso di caffè che bolle tuttavia, come snidare queste abitudini, e porre, d’un tratto, al loro posto, le superbe virtù di saper combattere e morire?
Vizi che sarebbe meglio non darne al soldato che cammina su quella lama di rasoio ch’è il Carso: perché se alla giovinezza fai sentire che, respirando un’aria quieta, ogni poro le si allarga e sprizza allegria, ah le granate, che macabra sinfonia!
Il maggiore ha la faccia seria. Assumiamo anche noi, con una certa fatica, l’aspetto delle ore solenni. Fuori, il temporale scagliona le sue nuvole col gesto burbanzoso che gli conosciamo: e che fragori di tuono, che sferzate di grandine, che pispigliar di rivoli lungo i camminamenti della collina! Viene quasi la tentazione di stringerci tutti attorno al nostro comandante di battaglione e dirgli, decisi: «Perché vuol farci cadere dall’alto la tremenda notizia? Andiamo: e non parliamone più!», poiché il frastuono del di fuori e il silenzio del di dentro hanno ormai creato un’atmosfera ambigua, che i nostri polmoni non sopportano.
Un’ora buona di rapporto! Rimasticando le parole del maggiore, rivediamo Oppacchiasella, coi suoi camminamenti fangosi, coi suoi ricoveri sconnessi, su cui picchiano o s’abbattono i sassi sollevati dalle granate.
Il maggiore stava palleggiando, tra le labbra, le ultime avvertenze, quando un tuono secco, di saetta, spalancò l’uscio sulla figura del nostro comandante di brigata, il generale Rocca.
Egli è solito a queste apparizioni fulminee. Magicamente, ci componiamo sull’attenti.
Sferzante, una parola taglia quasi tosto il silenzio: – Riposo.
La sua voce strascica l’erre, per abitudine: ma chi lo oda dare un comando o un rimprovero, sente che quelle erre stridono per obbedire ad una scossa interna dei nervi.
Ha, con uno sguardo lungo, chiamato a sé l’attenzione di tutti. Indi, ha parlato della trincea nemica, della preparazione tattica, dell’esempio materiale e morale. Ed ha conchiuso con una parola sola: conquistare.
Comandanti che non fanno spreco di fiato.
Anche il colonnello ha fatto un «gran rapporto» breve. Le sue parole di piemontese duro e scaltro pare filtrino sempre attraverso l’atmosfera torbida del combattimento. Dentro la sua gola è qualcosa di pietrigno, che fa argine al sentimento, alla cortesia, alle espressioni ambigue della solita vita sociale.
Il colonnello conosce solo gli imperativi. I suoi occhi non ridono mai e quando vi si provano, il sorriso è mangiato da un lampo obliquo di ironia. Non crede a nulla: o, meglio, a cose che siano estranee al dovere e alla disciplina. Un bell’assalto gli rende lucidi gli occhi, non sai se di entusiasmo o commozione: ma quel lucore è sentimento.
– La nostra pelle, ragazzi miei, non vale oggi un soldo falso. Ricordiamocene.
Ha ripetuto due o tre volte la frase «soldo falso» e la voce era ferma, lo sguardo diritto e sicuro.
Finché i fanti hanno sperato che dal Cappuccio si scendesse a riposo oltre Isonzo, le domande che avevano tutti a fior di labbra erano queste: «Si va oggi? si va domani?»; ma quando si è presentata una sola via, quella della trincea, il cuore si è stretto, e, in gola, le bestemmie più atroci hanno cercato un passaggio. E poiché non c’è nulla da fare per iscansarla, si beve. La cinquina scivola nelle tasche capaci del cantiniere che, per riempirsele, non ha avuto neppure bisogno di avvicinarsi agli accampamenti. I soldati scendono a fargli visita alla Filanda: e com’è dolce risalire il Cappuccio coi fiaschi che gonfiano i tascapani! Tra un giorno, tra un’ora, né un soldo in tasca, né una borraccia piena. E i tascapani soffriranno un altro peso, quello delle cartucce e delle bombe a mano.
Bisognerà dare un saluto a questo monte che ci ha ospitati. Non ha offerto molto, con le sue croci che ammonivano di continuo, con i suoi camminamenti melmosi, dove l’uomo ha lasciato, passando, segni e rifiuti, con le sue tane fonde, nelle quali l’acqua stagna da gran tempo (e il sole si sfilaccia invano per asciugarla); ma quassù abbiamo trascorse ore di gaiezza, ci siamo sentiti giovani. Un’ora di giovinezza vera risana un mese di disagi. E come pare lontano il tempo in cui, i piedi nella mota, si resisteva al sonno, con ostinata volontà!
I battaglioni, a una certa distanza uno dall’altro, salgono verso Oppacchiasella. È quasi notte. Gli uomini, in quelle mezze tenebre, hanno l’aspetto di giganti. La strada ingoia le compagnie, che sfilano lente e silenziose. A San Martino, sulla sella, si cominciano a vedere i razzi di là dal Vallone. Sembra che si sollevino dai bordi delle colline; ma sono invece lontani qualche chilometro.
Il Vallone pare che sobbalzi. Migliaia di bocche da fuoco, instancabili, eruttano le loro granate brucianti sul nemico. Il cannone da campagna ciancia i suoi proiettili tra i denti e li caccia via, un dietro l’altro, con foga vertiginosa. I campali prolungati, sputano fuori, più calmi, il loro colpo; mentre i grossi calibri pare vogliano sciogliersi dalle chiavarde, che li legano alle piattaforme, per volare anch’essi col proiettile sulle retrovie nemiche. Il cannoneggiamento dura da molte ore; e si arresterà solo qualche minuto prima che la fanteria si slanci all’assalto. Nei bagliori prodotti dai colpi in partenza, ti par vedere torsi di colossi muoversi tra masse di ferro incandescenti. La notte chiude la fatica prodigiosa degli uomini in una cornice di così buio mistero, che non ad un’opera di distruzione sembra che gli artiglieri attendano, ma di creazione. Come se da fucine profonde, incavernate nelle doline e negli anfratti del vallone, debba uscire, domani a giorno, qualcosa di vivo o di utile all’uomo.
Domani! Domani andremo all’assalto della trincea nemica, superando, con uno sforzo di volontà immane, quel minuto di esitazione, che lega chissà per quale forza del caso la vigliaccheria all’eroismo. L’orologio sarà padrone della nostra vita e della nostra morte, svegliando con i movimenti della sua lancetta indocile i ricordi lontani dei luoghi dove, fanciulli, indugiavamo in giuochi e fantasie. Rivedremo una casa aperta al sole ed agli odori di campagna: magica visione di pochi secondi, su cui la realtà, d’improvviso, calerà la mano, cancellandola forse per sempre.