Il mio “giannizzero”

Mi affidarono un plotone che aveva, nel bat­taglione, una buona storia.

L’aspirante Lo Pedota, presentandomi ai sol­dati, spiegava ch’io sarei, per loro, un padre e un amico; chiederei coraggio e ne infonderei; saprei far calcolo delle loro vite, ma esigerei, sempre e dovunque, obbedienza e prontezza. Il dialetto barese imbavagliava le belle frasi del mio collega, ed io mi chiedeva se egli, esage­rando per amor di bene nelle promesse, non mi rappresentasse migliore che io non fossi. Fresco fresco di scuola, io arrivava sul bosco Cappuccio. Non ero più il soldato rozzo e fan­goso che, tre mesi prima, scendeva dal monte Cengio, dopo venti giorni di lotta aspra, di marce forzate e di digiuni. C’era, in me, come una co­scienza nuova: lo stupore gioioso di chi ha trovato in se stesso attitudini e capacità inattese, e pur teme che la sorte non lo aiuti ad espri­merle.

Il Carso, questa era una guerra sconosciuta e truce che bisognava imparare.

Guardavo i soldati che domani avrei coman­dato. Ad una ad una, le mobili facce si apri­vano, ma, dentro, mi pareva che le loro menti scandissero un pensiero: tu non ci puoi capire.

Tanta gente, domani io avrei potuto fare di costoro ciò che mi piacesse.

Ma ciascuno aveva un suo mondo, una sua volontà, un suo modo di sentire. Che bisognava conoscere.

«Chi è stato buon soldato, sarà anche buon ufficiale». Queste parole le ho udite molte volte. Ma, sul Cappuccio, dopo la presentazione di Lo Pedota, un improvviso scoraggiamento s’impa­dronì di me. No, i visi dei miei uomini non esprimevano simpatia. L’ufficiale nuovo era una incognita. Poteva essere bravo, ma la faccia di lui non prometteva niente di buono.

Poche parole pronunciai, a voce bassa, con un grande tremore di gola. E, come un bimbo, gi­ravo lo sguardo su tutti e nessuno, timidamente.

Il plotone si sciolse e gli uomini, tra le tende allineate, silenziosi, chiusi, sconosciuti, scomparvero.

Uno solo era rimasto. Sull’attenti, rigido e umile. Mi guardava, aspettava.

Lo Pedota disse: – È il «giannizzero» che ti ho destinato. Buon ragazzo, calabrese e devoto.

– Come ti chiami?

Due occhi chiari, sotto l’elmetto, sorrisero: – Rechiche.

La notte odorava di mentastro. Ma il vento recava nella mia tenda correnti d’aria umida che sapevano di camposanto.

I topi frusciavano sotto la branda. Il mio com­pagno di tenda, l’aspirante Samperi, mi raccon­tava, con cadenza siciliana, l’ultimo combatti­mento.

Ma io, accorato e chiuso, ascoltavo appena.

Ero triste e non sapevo bene per che. La casa lontana, l’arrivo sul campo di combattimento, la prima notte da sopportare, solo, tra gente ignota e forse diffidente. Ma, più che tutto, il pensiero del plotone da comandare, io dovevo impadro­nirmi di quelle cinquanta nature, per diventare buon ufficiale. Ma la sera si era chiusa su un silenzio di gelo. Invano, io aveva cercato uno sguardo chiaro sotto gli elmetti cilestrini.

Dall’apertura male abbottonata della tenda, la luce del mattino penetrò, fredda, dura, pungente.

Disse l’aspirante Samperi: – È giorno.

Aveva, il mio compagno, un viso meno scuro della sera prima. E mi parve assai giovane.

– Quanti anni hai? – gli chiesi.

– Venti.

– E i tuoi uomini?

Egli non comprese.

– Ti amano? Li conosci tutti? Li senti nelle tue mani?

Sorrideva. Temetti che non avesse ben capito. Ma la mia domanda era stata ingenua.

– Mi obbediscono – rispose con voce stri­dula.

È entrato il mio attendente. Gli occhi chiari sono anche più umili di ieri sera. Egli ha una gran voglia di ripulirmi, di vedermi contento.

Alla luce, che il sole comincia a scuotere e scaldare, l’accampamento pare meno freddo e cupo. Gli abeti radi e deformi, che già mi sem­brarono ombre spettrali, ospitano qualche gola di usignuolo.

Sul Cappuccio, due mesi or sono si moriva. Ora bianche croci, segni di sepoltura, terra smos­sa; ma i miei fanti non hanno proprio faccia di moribondi.

Su sei tende, si estende il mio dominio. Ho chiamato il caporalmaggiore di giornata perché prenda nota degli ammalati. È un uomo sui trentacinque anni, biondiccio, con gli occhi che scrutano profondo. Ha l’espressione di iersera: tra garibaldina e noncurante.

Pare che le pupille chiedano: – Ma tu chi sei, che vuoi, che pretendi?

Sono il vostro ufficiale; vi vorrò bene; verrò con voi all’assalto e mi vedrete primo, sempre e dovunque; sarò, per voi, più di un fratello.

Vorrei dire. Ma i soldati, al mio passaggio, salutano appena. Senza sorridere.

Ho domandato il nome a qualcuno di loro.

Rispondono, ma con indifferenza, senza zelo.

Io porto con me tanto amore. Vorrei vederli più pronti, più decisi, più caldi.

Il mio giannizzero, egli solo sorride e mi fa cuore.

Combattere, oh non è bello; ma se si potessero avere sempre gli stessi ufficiali, quelli che conoscemmo il primo giorno e che sapemmo affezionarci!

– Signor tenente, questo è il lato più brutto della guerra. Oggi, voi siete con noi e si fa un turno in prima linea, ma la ventata di lassù porta via amici, compagni e ufficiali buoni. Il riposo, più tardi, ci rinsangua: giungono complementi, e agli ufficiali che l’assalto e la trincea hanno mangiati altri ne succedono. Il destino non vuole che si viva molto insieme, con chi è venuto alla guerra.

Abbiamo finto un assalto alle vecchie trincee del Cappuccio. Prima di dar comandi, ho vo­luto, sulle due righe, guardare in faccia i miei uomini.

I giovani sono pochi: appena dieci o dodici. La più parte, complementi dell’81°, hanno facce ispide, baffi grigi, spalle ricurve. Non ho par­lato a lungo. Il Cappuccio e questo camminar tra ossa di caduti e croci e «bambini capovolti» non consentono le parole grosse delle caserme.

Li ho guardati ad uno ad uno e chiesto delle mogli, dei figli, delle case lontane.

Ma la guerra è tanto lunga! Essi la combat­tono da molti mesi: e ogni offensiva nuova si dice che sarà l’ultima!

Pazientare, resistere quel poco che ancora è necessario; fare, fino all’ultimo, tutto il nostro dovere.

E poiché ogni ribellione sarebbe vana, atten­diamo con fede e con sopportazione l’ora della vittoria e della fine.

Capiscono, sorridono; qualcuno tenta obbie­zioni, qualche altro timidamente assente.

Li ho lasciati soli.

Ma sento le loro voci confondersi. Chi sa che discorsi stanno ora arruffando!

Le baracche dei comandi di brigata, di reg­gimento e dei battaglioni, addossati alle spalle della collina, biancheggiano di asciugamani, stesi ad asciugare. I vetri riflettono la mattinata quasi estiva e fanno sembrare più vivace la terra umida e rossa del Carso.

Il San Michele, dove il mio reggimento si è consumato in un olocausto di dodici mesi, rac­coglie sulle sue groppe attendamenti di altre brigate. Anche lassù, uomini che hanno combattuto, ufficiali che studiano l’anima dei propri sol­dati: gente che ha fatto il suo dovere e lo farà.

Mi sento quietato e tranquillo.

Rechiche mi raggiunge, recando la borraccia col caffè caldo.

– Sa che cosa dicono laggiù?

– Sentiamo.

– Che lei deve avere, sparso per il mondo, qualche figliuolo.

Sorrido: – I tuoi compagni hanno indovinato. Anch’io, sì, sono padre.

Dopo il finto assalto, il maggiore mi ha chia­mato: – Lei ha già comandato in combattimento?

– Signor no.

– La sua professione?

– Scrivo.

Il superiore ha sorriso. La risposta gli è sem­brata o ingenua o pretenziosa.

Ma ho notato nel suo sguardo di soldato un lampo di simpatia.

Rechiche deve aver parlato di me coi compagni.

I soldati sono ora proprio miei. Prima che, dall’alto del Cappuccio, squilli la disperata trom­ba del silenzio, essi mi vengono a chiedere, alla spicciolata, se ho comandi, se abbisogno di nulla. Durante le istruzioni, parlo molto con loro. Rac­conto tante cose, di storia antica e moderna, delle case nostre lontane; rievoco le campagne soleggiate, ricordo i balbettii prodigiosi dei no­stri bimbi.

Non faccio istruzioni noiose, non mi perdo nei per due e per quattro.

Anche il caporalmaggiore dalla faccia gari­baldina ha spostato il suo berretto, che teneva sempre sulle ventitré: e forse forse non pensa più tanto male della guerra.

Ma anche loro, i miei fanti, raccontano. Chi ha un figlio e chi ne ha più: e tutti questi bimbi – il mio e i loro – pare ormai che si cono­scano, che giuochino insieme. Così, alla cheti­chella, dietro le schiene dei papà, radunati quas­sù in armi per fare la guerra all’Austria.

Rechiche guarda, con una certa diffidenza, i libri che ho tolto dalla cassetta e che porterò in trincea.

Ma non dice parola.

Se li passa da una mano all’altra, leggicchia i frontespizi: persuaso che debbano rientrare nella cassetta e scendere al carreggio.

– Metti nel mio zaino quei volumi.

Ho dovuto ripetere il comando due o tre volte.

Egli, per qualche minuto, tace.

Ma, poco dopo, domanda all’aspirante Samperi: – Voi ne portate?

Samperi non ne porta.

Rechiche vuole allora farmi capire che lassù, in trincea, coteste carte non servono.

– Nessun ufficiale, nel battaglione, ne porta. Se lei li vuole con sé per imparare la guerra, è uno sbaglio proprio grosso. Li perderete e non imparerete nulla, signor tenente.

Con uno sguardo secco, lo costringo a tacere. Egli obbedisce. Riapre la cinghia dello zaino e cerca brontolando un po’ di posto a Leopardi, a Foscolo, a Dante.

Ma continua a crollar la testa, testardo.

I suoi occhi bassi pare che dicano: Al primo assalto, ne riparleremo.