Il riposo è finito
Stassera, bisogna proprio risalire.
Abbiamo vissuto giorni di dubbio e d’attesa. Le tende furono disfatte due volte, le coperte avvoltolate il 28, il 29 e il 30.
Ma giungeva un contr’ordine: attendere alle istruzioni, oggi non si sale più.
Il fante non si sa dar pace di questa incertezza, di cui danno prova gli alti comandi. Per quanto l’esperienza gli suggerisca da tempo che «venuto l’ordine bisogna, prima di eseguirlo, aspettare sempre il contrordine», questa alternativa di speranze e di certezze lo esasperano grandemente.
Come il solito, li trovo brontolanti. Primiceri, il socialista, stringe i pugni e maledice il mondo intero: – Ci hanno ormai preso a cottimo quei signori! La Ferrara è fatta di gente fessa, che, come la butti, la butti bene. Un mese di Carso non li ha consumati tutti? Con un pugno di complementi, rimettiamo in sesto i battaglioni e li ricacciamo lassù. Tanto, non sono faccie che si ribellano!
Gli dico: – Se altra truppa non c’è, devono per forza ricorrere a noi!
Ma Primiceri: – Signor tenente, fosse vero questo che lei dice! La Brigata Regina, quando hanno visto che non faceva più un passo fuori delle trincee, l’hanno tabaccata in Carnia, a far la vita di montagna. Solo la Ferrara la sbattono sempre sul Carso. Ma giuocano una brutta carta questa volta!
– Calma, calma, ragazzo mio! E pensa ai tuoi figli. In guerra, tu lo sai, non si scherza.
– I miei figli, signor tenente, aspettano il padre. Lei dice tante belle cose, è un buon ufficiale, è un ottimo padre…
– Non violinarmi.
– Non violino. Dico la verità. Ma, signor tenente mio, quello che conta è vivere. Morto io, un altro Primiceri, per quei figli laggiù, nessuno lo rifabbrica. La guerra sarà forse anche necessaria, come lei dice, ma il troppo… stroppia. E mi pare ormai che continuare ad obbedire sia proprio da fessi.
– Basta, con questo discorso! Tanto, tu lo sai, non c’è nulla da fare. Se una mosca volesse uscire da una finestra chiusa, riuscirebbe? Si spezzerà le ali e la testa sui vetri, ma non passerà. E così noi. Coraggio piuttosto e pazienza! Per noi, per i nostri figli che ci attendono. E ricordati, Primiceri, che non voglio più sentire parole come quelle che hai detto or ora.
Li ho lasciati soli. Ma anche noi ufficiali siamo così poco convinti che non è possibile, chi abbia un carattere, combattere con sofismi la verità.
Il risentimento dei nostri fanti è, più che giusto, umano. Da otto o nove mesi, la nostra brigata si consuma sul Carso, senza aver mai goduto di un riposo o di una pausa. Intervalli di qualche giorno, per un poco di pulizia e di disinfezione, ma il riposo vero, quello che può permettere di riaprire al respiro i sensi, non fu mai concesso.
Con quali criteri il Comando Supremo fa la guerra?
Trattiene in Carnia, in Cadore, sul Tonale certe brigate dal principio della guerra; altre, le consuma invece, ininterrottamente, nelle fornaci più tremende del fronte. Si finirà, questi soldati ottimi, queste tempre ormai salde di combattenti, col ridurli, un brutto giorno, all’esasperazione. E allora Cadorna ordinerà le decimazioni dei reggimenti. Ma forse neppure queste salveranno l’esercito.
I campi di Versa, dove accampiamo, sono divenuti un pantano. Piove, piove, piove. Nella tenda, ti copri, ti giri, ti accomodi, ma senti il peso dell’umidità, ugualmente. E, tuttavia, sei in un paese, la guerra è lontana, questo è proprio il riposo. I fanti preferirebbero ancora molti giorni di pioggia e di tenda, e l’inattività quasi assoluta dell’accampamento alla marcia che dovrà condurci di nuovo lassù, nelle trincee del Carso.
Oggi siamo andati, per l’ultima volta, all’istruzione. Nardone ha faticato a strappare dalle tende tutta la compagnia. L’istruzione è così stupida e inutile! E i fanti, che sanno di dovere tra poco risalire sul Carso, preferirebbero scrivere qualche cartolina a casa e fare una fumata in pace.
La colonna, sulla strada, non fu mai tanto disordinata e distratta. Hanno voglia Nardone e i subalterni sgolarsi: un, dui, un dui!
Ciascuno va per suo conto e bestemmia.
S’era quasi giunti al Torre, quando incontrammo un’automobile che sboccava dal ponte. Trombettando, essa supplicava un po’ di largo.
– Ah, gli imboscati! – urlano i soldati, senza muoversi.
Lo chauffeur, incrociando la colonna, sente il dovere di frenare.
Tre o quattro borghesi fumano, lì dentro, e parlottano tra loro.
Ruella scatta:
– E poi si deve fare la guerra con rassegnazione! Costoro, non sono forse giovani quanto noi? Perché non sono anch’essi quassù?
Gli altri approvano, brontolando.
Io guardo i loro occhi stanchi, le loro fronti chiuse sotto gli elmi, i corpi ricurvi. E sento dentro di me una pietà immensa per questi esseri che il vento della guerra ha gettato quassù, inconsci. Essi non sanno quello che io so, né sperano quanto io spero.
– Dio voglia che costoro non si risveglino, domani!
Pare che questa volta non si ritorni nei luoghi noti. C’è un monticello da assalire, più a nord, che resiste a tutti gli attacchi e concentramenti di fuoco. Si chiama Pecinka. I più allegri, pronunciando questo nome, starnutano.
Hanno una gran voglia di bere, i miei uomini. Ma la cinquina fu consumata tutta in benzina il primo giorno, quando giunse la notizia che il riposo sarebbe stato breve e che lassù, a Oppacchiasella, c’era ancora qualche faccenda da sbrigare.
Tognana frigna sul suo deschetto di calzolaio. Non si beve e si ritorna a combattere: come si potrebbe essere allegri?
Ho chiamato Tognana e gli ho chiesto: – Se qualcuno ti domandasse a che cosa si può paragonare, della tua vita borghese, il riposo che qui in guerra ti danno, tu che risponderesti?
– Risponderei – dice subito Tognana – che il riposo è come uno che, dopo essere stato per un mese senza un soldo in tasca e con l’impossibilità di bere, si trova d’un tratto una gran somma in saccoccia; o come uno che, essendogli stato detto che un tale ha giurato di fargli la pelle, non dorme più, non mangia più, non ha un’ora sola di bene, e un bel giorno t’incontra invece il presunto nemico che gli sorride, gli dà la mano e gli paga un litro.
Scalerà, presente, dice: «Il riposo è come una bella donna, che ti scrive da innamorata, che ti fa dire da amici e conoscenti che vuol essere tua, e tu invece non puoi né amarla, né cercarla, perché sei inchiodato a letto dalla febbre».
Buffa dichiara che il riposo è, come per un ladro che ha rubato, in barba ai carabinieri e alle guardie, la libertà. È bella, è gioiosa, tutto quel che vuoi. Ma più ne senti la bellezza, più t’accorgi di non potertela affezionare, perché temi che da un minuto all’altro quei carabinieri, che ti guardano sempre in cagnesco, trovino la refurtiva e ti schiaffino, ben benino, in gattabuia.
Sotto la tenda, ho sorpreso questo dialogo tra Grisolli e Ficullo:
Dice Grisolli: – Come da ragazzi, quando vedevamo un’automobile o una bicicletta ci pareva che fosse un’invenzione di quell’anno, così ora, guardando questi paesi dove ci mandano a riposo io provo l’impressione che gli abbiano fatti apposta per noi in questi giorni, sporcandoli un poco per darci l’idea che siano vecchi.
Ficullo risponde: – È vero. Anche le donne di qui ti fanno pensare che le abbiano fatte apposta. Un po’ civette, ma non troppo, con quell’aria di mollarla e non mollarla, che ti fa stare sempre di buon umore e in isperanza.
Scalerà si era quasi fatta, a Versa, una fidanzata. E lasciarla, innamorata e calda, gli pare un delitto grave. «Finirà nelle braccia di un territoriale o di un soldato di sanità: me la godrà un imboscato!».
La cosa gli dà molto noia. Ma Scalerà si rassegnerà subito. Gli spetta, tra i primi, la licenza invernale e le donne di Puglia, oh, sono molto più belle e più ardenti delle friulane!
Montar la guardia, ripulire l’accampamento, far le corvées in paese: cotesti, sono lavori per gente che deve godere un lungo riposo: e non spettano a chi – sarà oggi, sarà stanotte – deve fare zaino in ispalla e ritornare in prima linea.
Ma il maggiore Mantellini non sente ragioni e sa farsi obbedire.
Lungo la strada maestra, passano soldati e carreggi. Anche quelli salgono: e dopo aver lavorato, ripulito, fatto istruzione. Illusioni, perché farsene? La guerra è guerra: che è quanto dire fastidio, facchinaggio, disagio. E morte, quando le cose vanno proprio male.
Sul cielo non naviga un solo aeroplano. Ma se cielo vi fosse! L’atmosfera è pregna d’acqua: le nuvole basse, grasse, gelate camminano, quasi all’altezza degli alberi, e pare che talora li scapitozzino.
I campi di granoturco abbandonati nella melma grassa e porosa infradiciano. I filari di vite non si sostengono più, uno con l’altro, come nella buona stagione: s’abbattono, o sulle proprie esili radici o su qualche tronco di gelso, senza forza. E i pampini, in terra, imporriscono.
Ma se il tempo non muta, quel monte Pecinka come si piglierà?
Gli austriaci, nelle trincee, diranno tra loro: – L’italiano sa far tante cose, ma cambiar la stagione, proprio non può.
La sera cade lenta e nasconde uomini e tende pel buio più cupo. Qualcuno osa cantare, ma chi vuol sentire voci allegre con quel freddo che morde dalle caviglie al collo? S’odono grida di ribellione, e taluno distribuisce anche qualche pugno. Quegli che cantava, vista la mala parata, accende allora una candela e scrive, o alla fidanzata o alla moglie: «Moglie mia, ti faccio sapere che ti voglio tanto bene e che non penso che a te».
Verso le quattro del 31 ottobre, l’ordine è giunto, e definitivo. Alle cinque, le compagnie cominceranno a sfilare.
Il capitano della 3a s’è ammalato di febbre. L’hanno condotto all’ospedale di Romans e pareva che lo portassero a morire. Quando ha saputo che si tornava in linea, dicono che si sia morse le mani. Ma questa può essere anche una storiella.
Ci accompagna la musica del reggimento.
Il primo chilometro non par proprio di marcia forzata verso i luoghi della morte. Si canta, si ride, un’allegria smodata incendia le gole. E nessuno ha bevuto.
Il generale, a cavallo, sfiora, con un bel trotto serrato, le colonne. Gli occhi pare che dicano: coraggio, ragazzi, io sono con voi, non ci perderemo di vista un minuto.
Poco prima di Romans, incrociamo il camion del draken-ballon.
– Addio, ballonari!
– Bravi, quei figli di papà!
Qualche voce è anche più severa:
– Imboscati della malora!
– Bella guerra, lazzaroni, a Palmanova!
Il cielo, con tutta la pioggia che ha vomitato in questi giorni, è terso, limpido, quasi estivo. Verso Monfalcone qualche nuvola s’accapiglia con i raggi morenti del sole. Farfalle gialle sembra che piovano adagio adagio sul mare che non vediamo.
I campi sono proprio sfiniti. La pioggia ha curvato le siepi, e, lungo i fossati, condotto sterpi, foglie, persino qualche tronco. L’Isonzo, che ha sempre una gran sete, aspetta lo sfociare di questi ruscelli gonfi, con ansia, per assorbirli, ad uno ad uno, fino all’ultima goccia.
Scende la notte e i canti, come quei colori del tramonto, a poco a poco svaniscono.
Le stelle accendono i primi lumicini, timide.
Il maggiore ordina un alt.
La colonna si arresta. La massa, che nell’oscurità sembrava compatta si sgretola, si apre, perde la sua forma solida.
I soldati si gettano sui mucchi di ghiaia, a ridosso della strada.
Il comandante di plotone ritrova tutti i suoi uomini, e li ascolta. Essi ora cinguettano, come bimbi. Tognana dice che venderebbe un figliuolo per un bicchier di vino: «Questi sono momenti, signor tenente, in cui la paternità non conta nulla. E la benzina invece è tutto».
Spano guarda le stelle. Egli, per il vino, non sacrificherebbe neppure un ciottolo del suo campo di Sicilia: «Quelle cose laggiù valgono un mondo, ma stassera le stelle mi dicono che, a casa, mia moglie piange».
Vincenzo Spano, lo conosco. Sentimentale, timido, parco di parole, ma se gli parlo della sua famiglia e del suo paese faccio di lui ciò che voglio.
Gli dico: – Se tua moglie ti vedesse in questo momento potrebbe sì piangere, ma come le sarebbe caro d’altronde ammirare in te un uomo e un soldato, uno che non ha paura di compiere fino all’ultimo il proprio dovere.
Egli non risponde. Ma mi pare commosso.
D’Amato, la voce grossa, le mani forti, indica una stella e mormora: – Quella, in ogni modo, sta meglio di noi.
Scalerà è arrabbiato. Essere alla vigilia della licenza invernale, intravederne le dolcezze e salire invece ad un assalto, come si potrebbe cantare?
Buffa, tutto solo su un paracarro della strada, il fucile tra le gambe, un poco cicca e un poco parlotta: – C’è chi nasce per mangiare sempre la pasta asciutta e le costolette, e chi è destinato, dal giorno della legatura dell’ombelico, alla polenta. Per noi, hanno inventato questo Carso, che è peggio anche della polenta. Cerchiamo di barcamenarci alla meglio e, se è possibile, di salvare il «pellott», come dice Carlingia.
Riprendiamo la marcia. Ora, gli uomini sfilano come ombre.
Le barelle, alte sulle spalle dei portaferiti, sembrano aste di bandiere.
Ci avviciniamo a Gradisca, e pare già di sentire la voce dell’Isonzo, sempre un po’ grossa e minacciosa. Le case, le ville, i giardini in ombra ingigantiscono. Di giorno, una gran povertà, ma di notte, dove la granata ha lasciato i suoi segni, muri nuovi sembra che siano sorti, alti, spessi, di fortezza.
S’incontrano carri e salmerie.
– Che reggimento siete?
– 47° Fanteria.
– Buona fortuna.
– Un saluto a Palmanova.
– Se passi per Versa, recita un’ave per noi all’osteria di Mariutta.
Carlingia sogna il ritorno in famiglia. Ma gli pare che ritrovar la casa, dopo un anno di guerra, e la notte sarà senza luna e lungo il Ticino non si vedrà più un lume solo, debba essere ben difficile! Svolti e case, fossati e crocevia, dove sarà andato questo diavolo di podere?
Ma oh!, ecco un pagliaio e, dietro, una finestra grande grande illuminata.
È, non è? Il cane che abbaia, questo bau bau pare noto; gli olmi, intorno alla casa, sembrano proprio i vecchi olmi piantati dal nonno. Anche il lume a tre becchi riconosci che non deve avere mutato, con tanto scarpinare che s’è fatto e tribolare.
Casa, casa: con quell’uscio sempre aperto a metà, quel primo scalino rotto, e, in cima alla scala, la gramola. E la mamma che urla: «L’è propi el me fieu!». Le sorelle che guardano, toccano, mentre un senso, come di diffidenza, le conturba: vedere quella faccia annerita, i panni sporchi, tutto un gran patimento. Il vecchio sta zitto e guarda. Vorrebbe dire che bisogna tirar fuori tovaglia di bucato e che si vada pel vino. Non una parola: grugniti. Ma le ragazze hanno finalmente capito quale botte il babbo vuole sia spillata, quale salame cominciato.
Chi ha detto che Carlingia sognava?