La “carica”
Ah, com’è brava quella 5a compagnia! I nuovi al fuoco hanno dato prova anch’essi di sangue freddo e di energia. Come ricordarli ad uno ad uno? Il mio caporale D’Amato, lungo tanto che un tronco di platano è nano vicino a lui, dirigeva il fuoco della sua squadra, come al tiro a segno. Ha cinque figli e sale in trincea tutt’altro che volentieri. Mi parla spesso di una sua figliola quindicenne, che egli definisce «la più intelligente» di casa. I suoi occhi grandi e lucenti si riempiono, quando ricorda la figlia, di grosse lacrime. Ma, per quanto attaccato alla vita e poco persuaso della bontà e necessità della guerra, questo contadino di Barletta è un caposquadra severo e obbediente. E sa fare con serietà, se non con entusiasmo, il suo dovere.
E il mio Scalerà che, dopo il contrattacco, si spogliò nudo nella trincea conquistata, per rivestirsi delle maglie e mutande, rinvenute nel bagaglio di un ufficiale austriaco? Ricordo il suo torso d’arabo che, nella notte, faceva pensare a quelli di certi atleti da piazza, stagliati sulla massa bruna degli spettatori, alla luce incerta del petrolio.
Ci siamo impadroniti di centinaia di fucili, di lanciabombe, di mitragliatrici, di bombole per gas asfissianti. Il capitano ha detto che domani, scendendo, ciascun soldato si caricherà di quanti trofei potrà portare, perché i compagni del reggimento, vedendoci, dicano: – Ah, quella 5a compagnia!
È quella che, nel battaglione, ha le migliori tradizioni. La chiamano anche compagnia «Vicinanza», dal nome dell’ultimo capitano che la comandò. Il quale fu capace di resistere a S. Martino una notte intera, insediato in un tratto di trincea nemica, con gli austriaci a destra e a sinistra. L’elemento conquistato si chiama ancora oggi col nome di lui, che vi lasciò, nella violenza di un contrattacco, la vita.
Se ne raccontano di belle della giornata di oggi! Il tenente Pieragnoli s’è trovato molto innanzi, verso Castagnevizza, e con pochi uomini.
Si è giustificato così: – Ma se gli austriaci fuggivano, non era mio dovere inseguirli?
Nel timore che l’artiglieria nostra lo battesse aveva, mancando di dischi, gettati giubba e panciotto, e piantata la camicia, a segnale, sulla canna di un fucile.
Quel costone di Hudi Log, boscoso, ripido, dirupato, invitava gli uomini alla corsa.
E i fanti volevano giungere fin lassù. Era un’altura. Trieste si nascondeva forse là dietro.
Erano occupati tutti come da un’improvvisa frenesia.
Si camminava, si camminava e non un austriaco, non un cavallo di Frisia, non una trincea! Forse la strada di Trieste era aperta!
Il fucile a bilanc’arm, l’elmetto sugli occhi, chi avrebbe ostacolato la corsa irragionevole dei piccoli grigio-verdi?
Quando scendiamo in seconda linea e ci chiamiamo l’un l’altro, abbiamo la gioia di ritrovarci quasi tutti. Manca il tenente Lanzavecchia del 2° plotone, ferito alla coscia da una scheggia di granata. I morti sono appena una diecina.
I superstiti hanno tutti prelevato nella trincea nemica, qualche ricordo. Taluno si è accontentato di gavette e borracce, ma altri – i volponi oramai pratici – portano corone austriache, rivoltelle, panciotti di pelo e coperte di ottima lana.
Non appena si giungerà in luogo riposato, assisteremo, come il solito, alla vendita di questi oggetti. Il caporale Ficullo è stato, dei miei fanti, il più fortunato. Ha con sé moneta austriaca per circa quattrocento corone e altri gingilli. In altro momento, m’indugierei attorno a questa roba, che Ficullo vorrebbe farmi vedere. Ma ora!, ora ho una smania folle della posta!
Nova Vas è stata conquistata: i prigionieri affluiti verso il Vallone sorpassano le cinque migliaia; tutta la linea dei trinceramenti nemici è stata raggiunta e sorpassata.
Ora, scenderemo, se Dio vuole, a riposo.
E poiché il riposo riconduce il fante a contatto dell’acqua corrente, nessuno farà più la guerra al pidocchio. Ciascuno ne sente, sulla pelle, una mandria. Bestioline, la cui vita è tutta movimento e appetito. Nei giorni di quiete e col sole, ti provavi talvolta a snidarli dalla maglia, dalla cravatta, dalla pancera: ma quando credevi di averli tutti uccisi e ti rivestivi ben benino, ad uno ad uno li risentivi sbucar fuori, più vivi, più affamati che mai. Gli ufficiali ingiallivano maglie e mutande con la razzia; ma erano tempo e soldi buttati. Anche gli ufficiali si grattavano tutto il giorno. Il pidocchio non sente disciplina o rispetto, e, quanto a gradi militari, non capisce dove cominciano e dove finiscono.
Proprio come il topo, che, con tutta la caccia che gli facevano i «giannizzeri», nei ricoveri degli ufficiali, si rifugiava di preferenza, come se capisse che il soldato è tanto povero da non lasciare, a pasto compiuto, neppure una briciola.
Carlingia, quando si spidocchia, è un incanto guardarlo. Mette i «ricciuti» animaletti su una tavola e ordina il «per due» e il «per quattro», come se fosse in piazza d’armi e con soldati di carne. E, talvolta, sui «piocc» più grossi, fa delle scommesse con Faella: quale di costoro passerà prima un dato traguardo o un certo ostacolo. E al suo «piocc», se gli fa guadagnare un fiasco di vino, salva, con gesto magnanimo, la vita. Chi non l’ha visto, può anche non credere. Ma Carlingia, da buon lombardo, sa mantenere la parola. E poiché gli parrebbe peccato grave gettare la bestia in terreno italiano, gli prepara, con carta da giornali, una gabbia e lo getta, aiutandosi con una specie di fionda, da lui fabbricata, verso la trincea nemica.
Buffa s’è gettato su una barella abbandonata, ancora umida di sangue, e, così a pancia all’aria, fa delle solenne constatazioni: – Un uomo, messo quassù, vale molto meno di quei rospi che, nella notte, imbragati nei pantani, zufolano non sai se d’amore o di pena.
Cantare, non si può; mangiare, devi quello che ti danno e, anche se ti batte il fianco destr, tacere. I tuoi bisogni, persino, sei costretto a farli a comando.
No, non è vero che sei di carne e d’ossa e sei uomo! Un sasso, anche un sasso conta più di te, se le granate non gli fanno ballare la tarantella.
E pure, a conti fatti, ti contenteresti di così poco! Soffrire, mangiar male, tribolare il freddo e l’acqua al ginocchio; ma vivere, vivere, vivere!
Ma hanno voluto farci godere una nuova emozione. Il terzo battaglione ha qualcosa da aggiungere al già fatto: un piccolo passo avanti per arrotondare la linea e renderla più forte. E noi dovremo essere di rincalzo.
Oh, 11 ottobre, che giornata! Gli austriaci hanno tentato di vendicare i colpi di mazzapicchio che abbiamo loro inflitti ieri. Non c’è stata dolina, camminamento, ricovero, che non abbiano sofferto schianto di granata. Non danno d’uomini, per fortuna, se togli i soliti feriti da sassi e schegge; ma di opere. Si dovrà, in qualche punto costruire di nuovo.
La rabbietta infruttuosa del nemico non toglie tuttavia appetito ai nostri soldati. E allegria. Essi sanno che ormai c’è speranza di rivedere la famiglia; e costi pure sacrifìcio e fatica la corvée in prima linea! Nessuno vorrà morire per fare il facchino.
Il terzo battaglione avanza, come un cavallo al galoppo, e noi, sempre alle sue calcagna. In verità, queste corse, sotto le granate, non sono un bel dessert, dopo il piatto eccellente del giorno 10. Ma purché le cose si svolgano con fortuna!
«Siamo sulla linea di massima resistenza» mi scrive il capitano, la sera del 12, poco prima che comincino le solite danze dei razzi: «rafforzarsi più che si può e non dormire!».
Ma c’è bisogno ch’io mi sgoli, perché i soldati rafforzino la posizione? Entrano nelle doline, abbandonate dal nemico, ritornando carichi di sacchetti, tavole, potrelle, lamiere. Sono stanchi, ma si danno un turno, con l’intenzione serissima di costruire delle fortezze. La nostra brigata lascia sempre buona memoria di sé sul campo. Chi ci dà il cambio, trova camminamenti, ricoveri, trincee d’una solidità a prova di granata.
Essi vanno, ma non sempre ritornano tutti insieme. Se domando del tale o del tal’altro, i graduati mi rispondono con una risata: – Sbrigano i loro servizi logistici, signor tenente.
Durante l’azione, e in prima linea, non è facile obbedire alle impellenti necessità corporali, come s’usa nella vita normale. Ora, nella tranquillità quasi assoluta della seconda linea, è invece possibile rispondere alle proprie abitudini con una certa correntezza. Si può inoltre scegliere un posticino ben riparato e comodo. E, di giorno, leggere anche il giornale.
Ma in queste notti non si chiude un occhio a volerlo serrare con le tenaglie. Ci si rovescia da un lato, e la mente rumina quel che si è fatto in questi giorni; ci si getta dall’altro, e una pietra aguzza tenta lederci le costole o il fegato.
La seconda linea è una bella invenzione, ma se, come questa volta, il governo si dimentica di mandarci il tabacco, non c’è fante che non preferirebbe, alla seconda, la prima.
Il giorno 11 era passato senza distribuzione. Ma qualche cicca, nelle tasche, si trovava ancora. Quelli che non fumavano vuotarono nelle mani dei fumatori la loro riserva di tabacco, in cambio di qualche soldo. Ma la notte bianca dell’11 consumò quel poco di fumo che si poteva ancora scovare. In linea, non si pensa a risparmiare. E anche le cicche si buttano, quando si sa di poter contare su un governo sincero. Ma il governo è quello che è. Il giorno 12 arriva il rancio e giunge il cognac, ma di tabacco non si parla.
I fumatori arrabbiati rovesciano le proprie tasche e quelle dei compagni. Ne vien fuori un tabacco, che è una polvere. Vi giuocan dentro molliche di pane, capocchie di fiammiferi: una grazia di Dio di tutti i colori e gli odori.
– Quello che non ammazza – dice il fante – ingrassa.
E arrotola sigarette, riempie alla meglio la pipa.
Ma tutto finisce a questo mondo! La sera del 12, di tabacco, non se ne trovava, tutto in giro, neppure una fogliolina.
Gli ufficiali si mordono le mani. Passeggiano dalla seconda alla prima linea, chiedendo l’elemosina di una sigaretta, anche ai colleghi che non conoscono.
Ma il fante, che ha combattuto, che ha lavorato, che ha rischiato la ghirba, questa ingiustizia non la può mandar giù.
Come? Ti tengono in linea da un mese, ti costringono a un assalto dietro l’altro, ti obbligano a sfondare un fronte tutto mitragliatrici, e poi si deve marcar visita col fumare?
I più ingegnosi, quelli che non riescono a vincere lo stimolo, staccano le foglie secche dei cespugli, le stritolano e le chiudono in fogli di carta da lettere. È. una sigaretta anche questa, per quanto amara e bruciante.
Ma chi non ha la gola di ferro, come Primiceri, non si sa rassegnare: e brontola, piagnucola, tira moccoli.
Nella notte, non c’è occhio che sappia chiudersi. Tutti vorrebbero andare di corvée a ritirare il rancio, con la speranza di trovare laggiù, nella «dolina dei muli», il tabacco di due giorni.
Il rancio giunse, ma senza sigarette e senza tabacco.
Sotto i ricoveri, gli uomini aspettavano con la febbre ansiosa degli assetati: brontolando, ruggendo, bestemmiando.
La speranza placava, solo a tratti, questa attesa tormentosa e rodente. Ma quando la voce dei sergente Armignacco pronunciò quelle tre parole terribili: «Tabacco, non c’è», un prorompere violento e tumultuoso di grida mise in subbuglio la linea.
Anche i più paurosi e incavernati, erano sbuzzati all’aperto.
Parevano, nella notte, più alti e più corpacciuti, tutti.
– Vogliamo tabacco!
– È una vigliaccata!
– Non combatteremo più!
Carlingia, sempre così calmo, aveva, nelle mani, il fucile carico e urlava che avrebbe fatto strage degli ufficiali: – Ci tengono in questo inferno e non ci fanno fumare! Ma li ammazzeremo tutti, tutti!
Anche altri correvano a prendere il fucile, come invasati.
Saltai addosso a Carlingia, lo disarmai.
– Sei tu, Carlingia? – gli urlai sul viso. – Pensa a quello che fai, disgraziato!
Carlingia aveva subito lasciato nelle mie mani il fucile e tremava tutto. Senza parlare.
Gli altri guardavano e tacevano. Ma le loro ombre scure si delineavano, all’intermittente luce dei razzi lontani, irrequieta ed ostile.
– A posto tutti! Chi fiata, lo faccio fucilare sul posto!
– Noi non l’abbiamo con lei – disse qualche voce nel buio. – Lei è il nostro tenente.
Ma qualche altro, sommessamente, brontolava:
– Siamo traditi!
– Ci trattano come cani!
– Non combatteremo più.
Aiutato dai graduati e dal mio attendente, riuscii, in un quarto d’ora, a farli rientrare tutti sotto i ricoveri. Carlingia, con un cenno, lo chiamai a me.
– Tu aspetta – gli dissi, con voce burbera e dura.
Sul sentiero sassoso, che girava intorno e davanti ai ricoveri, cominciai a passeggiare. L’alba staccava ormai il granito delle piante, sciogliendo una brezzolina fresca, che mi faceva tremar tutto.
Quando il plotone mi parve quietato, feci una corsa dal capitano. Anche il capitano e i miei colleghi avevano dovuto sostenere una uguale lotta. Ma egli mi comunicò che aveva già mandato un port’ordine al comandante di battaglione. Per l’indomani, e forse nella notte stessa, sarebbero giunti i sigari.
Il capitano voleva venire a placare i miei uomini; ma lo persuasi a rimanere sotto le coperte. I miei soldati erano ormai tranquilli.
Quando tornai nel mio tratto di linea, mi incontrai in Carlingia, che, a testa bassa, disarmato, inciampicava tra i sassi.
– Che vuoi?
– Ho mancato, signor tenente.
– Insensato! Sai tu quello che hai fatto? Sai tu dove siamo?
Carlingia si stringeva una mano con l’altra e non rispondeva.
– Vai al tuo posto – gli comandai.
Ma egli non si mosse.
– Vai al tuo posto – ripetei.
E senza più guardarlo, mi avvicinai ai ricoveri. A voce forte, annunciai: – Domattina, sarà qui il tabacco, ragazzi.
Saltarono su tutti, come bimbi, cui si promette un giocattolo sognato.
– Evviva il signor tenente!
– Si fuma, si fuma!
– Tarazun, tarazun!
Nessuno chiuse più gli occhi, nell’attesa.
Quando (era ormai giorno chiaro) giunsero i sigari, chiamai a me i capisquadra e dissi loro: – Distribuite questa roba. E dite ai vostri soldati che il casino di stanotte, non ve lo perdonerò campassi mille anni. Io sono fumatore quanto e più di voi. E non ho alzato la voce, né minacciato chicchessia. Che nessuno si muova e fiati più.
I capisquadra dovettero riferire testualmente le mie parole. E dire anche che, per me, io non avevo trattenuto una sola sigaretta.
Dopo qualche secondo, gli uomini del plotone erano tutti davanti al mio ricovero.
Ciascuno voleva parlare e scusarsi:
– Noi le vogliamo bene, signor tenente – diceva Tognana.
– Carlingia era impazzito – mormoravano Spano e Primiceri. – Ma noi siamo sempre i suoi soldati affezionati.
– Ci perdoni – esclamavano tutti in coro.
Così parlando, essi offrivano la esigua preziosa porzione di tabacco, ricevuta poco prima.
Ma io seppi tener duro: – No, no. Coteste scuse e dichiarazioni non sono sincere. Avete agito da pazzi, col doppio pericolo di rovinar voi e di mettere chi sa in quali rischi il vostro ufficiale. Andate a posto, ora. Vi aspetto, per conoscervi meglio, a un’altra prova.
Ma nessuno si muoveva.
Feci un cenno ai capisquadra, che volevo essere obbedito.
Mogi, mogi, i fanti tornarono al loro posto.
Uno solo era rimasto, Carlingia: – Che vuoi?
Egli aveva in mano il suo tabacco: – Lei non ha da fumare. Ed io sono il più colpevole.
Gli occhietti piccoli e chiari avevano un’espressione di singolare tenerezza.
Lo sforzo di non cedere alla commozione davanti a tutti, era stato per me troppo forte. Lo sguardo di Carlitigia, sinceramente implorante, finì di smontare la mia ira: – Va bene – esclamai sorridendo. – Sei già perdonato. Vattene ora e rifletti a quel che fai. Un altro ufficiale ti avrebbe fatto fucilare sul posto.
Carlingia mi prese una mano e tentò baciarmela.
– Ora fai anche lo stupido – dissi.
Egli voleva ad ogni costo che io accettassi una sua sigaretta. Ma io non gli rispondevo già più.
Intervenne Buffa: – Il tenente non ci pensa già più. Vattene, Carlingia.
Carlingia, col suo passo tardo di contadino, si allontanò. Ma, prima di raggiungere il suo ricovero, si voltò due o tre volte, portando la mano all’elmetto nel gesto rispettoso del saluto.
La sera del 13 avevo fatto il proposito di addormentarmi un paio d’ore, durante le quali un mio graduato veglierebbe. E di sonno duro. No. La sera del 13 è venuto in mente agli austriaci di provare una loro bomba con gas asfissianti. È sceso dalla prima linea un soldato, che gridava come un ossessionato: – Maschere, maschere!
Mi sono svegliato, con l’impressione che mi si frugasse nelle tasche. Era il mio giannizzero, che s’accingeva a sciogliermi la maschera dalla cintura, per imbavagliarmi dormente. Un’affettuosa premura: ma il caro ragazzo doveva capire che, imponendomi il bavaglio, mi avrebbe svegliato ugualmente. Ho subito placato questo momento di nervosismo. Nessuna nuvola di gas si approssimava. Notte tranquilla, con qualche razzo spelacchiato che saliva e moriva quasi subito. E fucilate, come il solito.
Feci, tuttavia, preparare i fastelli di legna dinnanzi ai ricoveri, raccomandai che la maschera fosse messa al collo, come uno scapolare, e, passata un’oretta in chiacchiere, mi riaddormentai.
Il cambio avvenne la sera del 14. La ricorderemo quella notte, che non si frenavano i plotoni neppure col calcio del fucile! Un cambio deve essere fatto con calma: e i nostri fanti volevano invece andarsene in fretta.
Dicevano: – Signor tenente, cerchiamo di arrivare in un posto dove si possa cantare!
Una smania e un incollerirsi tra loro per nulla! Avrebbero camminato su una lama di rasoio, pur di arrivare al Vallone! Quelli che salivano in linea, intralciavano tanto la nostra marcia – come la chiamavano i soldati – di allontanamento, che parole d’odio, come tra nemici, volavano nell’aria:
– Muoviti, lazzarone!
– Scalcinati!
– Lasciami passare, imboscato!
– Cane di ascaro, vuoi farmi o no, strada?
Ho domandato a Tognana, se preferisce la marcia di avvicinamento a quella di allontanamento. Ha risposto nel suo dialetto veneto: – Io non so che lei voglia dire; ma questa è la più bella marcia che abbiamo suonato in questi giorni di battaglia!
Ah, furbacchione!
Le prime voci sono sbuzzate fuori verso Vizentini. Provai l’impressione che uscissero da qualche ricovero sotterraneo o dai bordi della strada. E invece erano loro, i miei soldati. Cantavano:
Vado alla guerra…
Nessuno pareva ricordare più le tribolate ore di ieri. Avrebbero potuto scandire qualche nota d’amore o uno di quei cori nostalgici dei campi, che si insinuano nell’aria come ritmi di campane.
Forse le fantasie loro vedevano ugualmente, cantando, le case lontane, gli orti, dove scendono a gambe nude le donne, l’aia, dove ruzzolano insieme bimbi e pulcini, le zolle lucenti del piccolo podere; ma queste visioni divenivano splendenti, grazie soprattutto alle vicende sofferte. Per questo, la guerra riaffiorava col primo respiro di sicurezza, col primo immediato bisogno di espressione.
Anche Tognana s’è provato a cantare; ma il veneziano, se ha la gola secca, fa fatica, nonché a chiamar fiato, a trascinare le gambe.
– Tognana, non canti?
– Non ho più carica, signor tenente,
– Che carica?
– Io sono come un orologio. Cammino, finche la molla è tesa. Quando lei mi ha rialzato che ero proprio morto, un compagno mi ha dato la carica a sorsi di cognac. Per questo, sono arrivato fin là, dove lei faceva a schioppettate. Ora che la carica è finita, anche le gambe, come l’orologio, non girano più. E il povero Tognana è come una carriola senza ruote. Quanto alla gola: lei, senza chiave, ha mai aperto la porta di casa?
Ho capito, il giorno dopo, di quali chiavi Tognana si serva per aprire la porta di casa, nella sua calle veneziana.
I soldati – cominciato il riposo – hanno subito provveduto a due cose: a nettarsi ed a rimpinzarsi di cibo e di vino. Quando suona la libera uscita, è una corsa alle osterie, nelle quali, i pochi soldi delle cinquine scompariscono in un fiat.
Tognana, l’ho trovato con la testa abbassata sul tavolino di un’osteria. I compagni mi fanno segno che è pinzo di vino.
Lo tocco con la mano sulla spalla, una e due volte.
Nulla.
Insisto:
– Tognana!
Scosso ripetutamente, solleva alfine la testa.
– Vergogna! – gli grido. – Un soldato che ha combattuto così bene!
Tognana mi guarda, con un’aria, tra di scemo e di sorpreso.
Poi, con voce roca:
– Ma se ora non riguadagnassi quello che ho perduto lassù, che ne farebbe, signor tenente, di una mezza borraccia di sanità? Lei vuole un soldato o un lavativo?
Sceso a riposo, il fante gira l’occhio, con molta calma, sul verde sbiadito delle campagne friulane.
Il suo sguardo par dire: – Curiosa! C’è ancora del granoturco, qualche vite con l’uva penduta, contadini che dicioccano alberi!
Ma ora che la ghirba è al sicuro, il fante non vede il momento di poter entrare all’osteria, per mangiare una buona insalata e berne un bicchiere.
Il fango del Carso ha legato le fasce con la sua poltiglia rossa. Ma, con un poco di buona volontà, le fasce ritorneranno nette. Si potrà anche fare una discreta figura.
Il Carso aveva anch’esso il suo verde, ma proprio smorto; le sue acque, ma putride; la sua aria, ma venefica.
Sul Torre, in questa terra bella e benedetta, e senza dubbio italiana, Dio ha spalmato i suoi colori più sani, con certe venature grasse, tra solco e solco, che ci senti il lavorio lungo del sole e delle acque, ben combinati.
Sui fianchi forti, le femmine di queste campagne molleggiano.
– Come tu hai finito il tuo lavoro, bionda, e corri a casa, dove la cena ti aspetta e il letto, così il fante. Un mese di lassù! E ci pareva proprio questa volta che non saremmo tornati! Com’è buono il tuo sguardo e bianca la tua carne!