La mia dolina

Il Comando di Battaglione s’era installato in una dolina, che si appoggiava alle nostre trincee di prima linea. Non avevamo il lusso di una casa, né la sicurezza di una caverna. La dolina era piccola, spoglia e deserta.

Pareva che fosse nuova alla guerra.

Le altre erano tutte, quale più, quale meno, pingui di ricoveri, di lamiere, di tettucci, di sac­chetti a terra. La nostra no. Si pensava ad un’oasi, intorno a cui gli uomini di guerra fos­sero passati, senza badarle. Anche le granate avevano scoppiato dappertutto, gettando all’aria muricciuoli, camminamenti, piante. Ma la do­lina nostra era stata rispettata, come se le carte topografiche non la indicassero ai calcoli degli artiglieri nemici.

Vi giungemmo in una sera torbida e chiusa. Qualche razzo tentava infilare ogni tanto le sue perle gialle alle corde dei telefoni, ma il buio le mangiava ad una ad una, lentamente.

Le vedette sparavano alla cieca. Nelle zone scoperte, le pallottole fischiavano poco sopra della testa, con quel loro ronzio delicato che non sembra portatore di morte.

Un riflettore dal Pecinka cerca tra i cammi­namenti e le forre. Pare una mano intenta a spolverare e ripulire questi campicelli e buche, sulle quali gli uomini della guerra hanno disse­minato sporcizie, membra sanguinolenti, bran­delli di ferro.

Quando essa sopraggiunge e fa l’atto di ac­carezzarci, restiamo immobili, come statue.

Nessuno parla e ammonisce. Il fante sa che quella mano, così delicata e morbida, nasconde l’insidia, che alla sua carezza bianca succede un fischio e al fischio uno scoppio.

Lungo la strada, addossati ai muretti, ai cam­minamenti, dispersi nelle buche e nei ricoveri, i soldati delle compagnie, alle quali daremo il cambio, aspettano.

Silenziosi, abbandonati sui loro tascapani, essi, o mangiucchiano o dormono. Nel buio, si confondono tanto con la terra che i soldati che giun­gono, urtano spesso su qualche corpo, gli si abbattono sopra.

S’ode, o una bestemmia, o un chi va là. Ma risponde una risata franca, schietta, italiana.

La nostra dolina sembrava aperta ad atten­derci.

Il comandante del battaglione, cui succediamo nel servizio di prima linea, sbuzza fuori da un groviglio di piante e ci tende la mano.

La dolina è tutta sotto il nostro sguardo: pic­cola, bassa di orlatura, quasi nuda di vegeta­zione.

Si domanda: – Da che parte è il nemico?

Perché ora è un gran starnazzare di lucciole nel buio. A sinistra, a destra, di fronte, i razzi salgono, sfarfallano, cadono.

Il nemico è dappertutto. A destra ci picchia da Nova Vas, di fronte da Castagnevizza, a si­nistra dal Veliki e dal Pecinka.

– Ma bisogna lasciarlo fare – mormora dal folto dei baffi e della barba il comandante del 1° battaglione –. Siamo incuneati in casa sua, gli dormiamo tra le braccia.

Il pensiero che si dormirà tra le braccia del nemico, non ci mette di buon umore.

Carrozzo, port’ordine, confessa invece che la cosa lo soddisfa molto. Egli ha l’abitudine di russare e calciare, mentre dorme. Questi difetti, che lo hanno reso odioso anche a sua moglie, disturberanno bene il sonno dei tugnitt.

Ma qui non c’è il letto a due piazze. Bisogna appoggiare la testa sulle pietre e pigliare il tempo come viene.

Una pioggerella silenziosa, di quelle che du­rano a lungo, ci consiglia di preparare qualche ricovero. Un comando di battaglione ha il suo archivio e le sue carte; non può restare alla mercé del cielo.

Ho esplorato la dolina.

Ma non è facile scegliere. Anfratti, buche, non ve ne sono.

Il comandante del plotone zappatori mi aiuta nella ricerca. Ci appoggeremo alla spalla più alta della dolina. Il nemico potrà infastidirci dalla destra, ma la pioggia né distruggerà il piccolo archivio, chiuso in buste gialle, né impedirà al nostro maggiore di chiuder gli occhi per qual­che ora.

– Abbiamo scelto un posto che ha i denti – osserva Carrozzo, quando vede che, in terra, dovremo dormire tra una pietra e l’altra. – Ma i denti della pietra, se Dio vuole, non sono quelli del cannone.

Alle due, dopo una fatica non lieve, abbiamo la gioia di salutare un tetto. L’acqua penetra, ma con una certa timidezza. Il maggiore, chiuso in pastrani e coperte, è quasi totalmente difeso. L’aiutante maggiore è in condizioni più disagiate. Ma la pioggia, se anche scivola lungo il collo e scende a conversare con l’ombelico, non può im­pedire al sonno di stringere nel suo abbraccio un corpo stanco.

Abbiamo aperto gli occhi su una giornata di sole. Durante la notte, ho dato regolarmente ogni due ore le novità al comando di reggimento ed asciugate, paziente, le gocce d’acqua che mi giuocavano sul collo. Ma non ho pensato alla dolina.

Stamani, l’ho guardata di nuovo.

Ma è dunque questa la dolina, che abbiamo rovistata ieri sera? Quelle acacie, donde spun­tarono? E codeste bombarde, incassate in terra tra i sacchetti, sono state piazzate questa notte?

È una dolina molto vivace all’aspetto. L’aria può, se spiri vento, ciangottare con delle foglie proprio verdi; non siamo in somma in una buca miserabile.

Il cannone comincia a brontolare. Ma la do­lina erge i bordi sassosi e par ridere da’ suoi denti bianchi.

I soldati lavorano attivamente a prepararsi i ricoveri. Gli ufficiali comandano, lavorano anch’essi, cianciano tra loro.

Una corvée ha portato centinaia di sacchi. Si iniziano le fatiche più care al soldato. Costruire, ecco un lavoro che è caro e non stanca. Fare una casa, anche piccola e dove si può solo en­trare carponi, è proprio una gioia.

Ho fatto, d’ordine del maggiore, distribuire vino ai lavoratori. Una gioia piena si diffonde su tutti i volti. Ma Cadrenga, il piemontese, beve malvolentieri.

– Non ti piace? – gli chiedo.

– Signor tenente – mi risponde Cadrenga, con voce umile: – Mi sun stàa alpinazz. E per gli alpini, il vino sta al fil di ferro, come una donna magra a una donna grassa. Non c’è polpa.

Carrozzo fa di no con la testa:

– La grappa, ci vuol stomaco a tenerla, men­tre il vino fa bene e non stordisce. Quanto alla donna, quello che importa è che ci sia: e qui si morde la terra, Dio cane!

Una fossa, a poco a poco, s’è aperta nella dolina, la quale pare goderne e fremerne tutta.

Aprire, scavare, dissodare. Da quanto questa terra non sentiva il ferro penetrarla, sconvolgerla, morderla dentro?

Forse da un anno, forse da due. Spiccia fuori, granulosa, morbida, sanguigna. Le si muovono, in superficie, vermi bianchi e grigi che, come se avessero paura di quel sole e di quel chiasso, si rintanano tosto, scompaiono.

– Buona notte, signorini! – dice loro Car­rozzo. – Pare anche a voi che vi sia nell’aria puzzo di polvere?

Ma non è cattivo il puzzo della polvere, quan­do c’è sole e si prepara una casa.

Il maggiore vuole andare in prima linea. Bi­sogna pur vedere che cosa fanno le nostre com­pagnie: se lavorano a rafforzarsi, se seguono le mosse del nemico.

Si fa qualche piccola corsa, urtando nelle pie­tre, scostando le piante, saltando a piè pari qual­che buca o qualche granata non scoppiata.

Ed ecco la prima linea.

Muretti a secco, feritoie, uomini intenti a sca­vare, dischi bianchi. I quali ultimi sembrano sporgersi, più per tener d’occhio gli honwed che per dire alla nostra artiglieria: «Qui ci chia­miamo Italia e bisogna tenersi lunghi col tiro».

Il sole inquadra, con i suoi raggi obliqui, i campi, le doline, i colli. Esso non vede, come noi, i reticolati, il terreno neutro, né pensa: fin qui arriva la linea nostra, fin là la nemica. Egli taglia a suo modo. E uno stesso raggio solleva pulviscolo o presta corridoi agli insetti, tra la terra nostra e la nemica, imparziale.

Le allodole, quando un colpo di cannone si abbatte sui campi, schizzano a branchi nell’aria sonnolenta e la riempiono di pigolii. Come fanno a mantenersi su una terra così insidiosa e a vi­vere tra uno scoppio e l’altro?

Carrozzo assicura che «le allodole credono che quegli scoppi vengano dalla terra e non dall’alto: e che quelle grandi fosse si aprano per offrire loro becchime».

Mi sono avvicinato alle feritoie, ho cercato con Tocchio qualche «gattone». Ma non ho sparato. Bisognerebbe, per sparare, che io rive­dessi quel faccione rosso di austriaco, che saliva l’altipiano di Asiago, nel maggio scorso. Correva innanzi a tutti, urlava, sparava, gettava bombe.

Quello, se non è morto e lo ritrovassi, vorrei baionettarlo di gusto. Mi pareva rappresentasse, nella sua foga e nel suo vociar strampalato, l’a­nima tedesco-austriaca, albagiosa, ubriaca, fan­gosa, pletorica. Ho un odio santo per lui e vor­rei che fosse qui, sul Carso. Forse mi sarebbe possibile vendicare qualcuno dei miei compagni che, sull’altipiano, in quella primavera limpida e verde, caddero con la fronte verso Trento.

I fanti affermano che la prima linea è ripo­sante. Perché si può anche lavorare di badile e piccone; grondare sudore e bestemmiare di stan­chezza; restar immobili due ore sullo sbocco of­fensivo a far le vedette, ma i tramvai che si sfogano laggiù verso Oppacchiasella e mordono quelli che sono di rincalzo, con la prima linea non pigliano confidenza. Si contentano di guar­darla in cagnesco, mentre le passano sopra, ciur­lando.

Ma la mia dolina è proprio bella!

I soldati, quando torniamo dalla visita alla prima linea, hanno preparato parecchi ricoveri, riempito centinaia di sacchi. La sagoma della dolina ha perduto in snellezza. Ma le si apre in grembo una fossa ampia, con una bordatura fedele di muricciuoli, di bombarde, di cespugli.

Dopo due o tre giorni, io e la dolina ci in­tendiamo e conosciamo bene. Il nemico, ora, ci cerca spesso. Ma i suoi colpi cadono sugli orli, abbattono qualche muro e qualche albero, non cercano noi.

Di giorno, io scrivo, do ordini dal ricovero: ma ho sempre l’occhio sulla fossa che si allarga, sugli sterpi, sulle acacie.

So ormai, se il vento viene da ponente, quali foglie si muoveranno, che fremiti avranno i po­chi alberi nani, allunganti il ciuffo dietro i muri.

Le bombarde hanno l’ordine di tacere. Alli­neate tutte e quattro, tra i sacchi gonfi, pare che spiino l’orlo della dolina, da cui si vede Ca­stagnavizza, il Veliki e s’intendono i monti di Lubiana, tra le nebbie e il cielo.

Ho proibito che si abbattano le acacie. Scende talvolta a farvi sopra i suoi vocalizzi un uccel­lino. Non so distinguere di che natura sia; ma deve essere di quella razza che noi, in Toscana e nelle Marche, chiamiamo forafratte.

Sul Carso, non abbiamo il dizionario da con­sultare. Siamo, a dirla franca, dei pellegrini. Sul Trentino, in Cadore, in Carnia, i nostri colleghi di fanteria si permettono il lusso di una casa, di qualche libro, possono bere un caffè caldo. Sul Carso, si è sempre in cammino. Una dolina offre riposo per una notte. L’indomani, bivac­cheremo più innanzi. Anche quando non si fanno vere e proprie azioni, si tentano approcci, e si va avanti a piccoli passi. Dobbiamo crearci quo­tidianamente il nostro piccolo albergo. Dormia­mo con i topi, qualche insetto vorace ci mole­sta; ma non sono sempre gli stessi. Come mu­tano le dimore, così anche mutano i nostri com­pagni di riposo e di sonno.

Chi va sul Carso, tra tante ore brutte e vicende brusche, ha almeno una gioia, che gli si ripete di continuo. Il nuovo, l’imprevisto ti attendono ad ogni svolto, e se sei sentimentale e creden­zone questa vita ti eccita e ti incanta.

Quei pochi che queste emozioni non ricevono combattono male, si muovono di malavoglia, preferendo il sonno al cammino.

Io invidio l’uccellino che fa i vocalizzi. Esso passa dall’acacia al muretto e vede, senza essere scorto, che cosa fanno i nostri nemici, di là dalla strada.

Se noi affacciassimo la testa, dove il forafratte cinguetta, offriremmo un ottimo bersaglio a Cecchino, e o ci porterebbero via, mezzi morti, in barella, o resteremmo bocconi tra le acacie.

Hanno recato in dolina il corpo enorme di un artigliere di montagna. Se fosse stato di cor­poratura minore, la sua testa non sarebbe stata colpita. Forse, pover’omo, pensava in quel mo­mento di transitare con un carico di legna su un sentiero delle sue montagne aostane. E camminava franco, sillabando una canzoncina val­dese.

Il sentiero non era di montagna, ma di un camminamento sul Carso.

Bisognava andar curvi e cauti. Egli o fu au­dace o distratto: ed ora è un corpo morto, una cosa che non conta più. Si deve seppellire. Era un soldato, una mano utile, un filo della grande corda che stringe sempre più energica e da vi­cino questo Carso maledetto. S’è spezzato, d’im­provviso, mentre camminava nel sole, che par promettere tanta libertà e allegrezza e forza.

Non c’è da perder tempo. Chi cade, diventa un impaccio, nuoce all’aria e agli uomini, è quasi un nemico di quegli che resta ed ha il compito di continuare.

Fu una cosa triste sventrare ancora la dolina. Si cercò un cantuccio tranquillo, lontano dai ricoveri, un riposo degno di chi muore di fronte al nemico.

Ma il badile non affonda nella terra. Il soldato, quando fa una casa, scava con ardore e giunge nel profondo; ma una fossa non è un ricovero per difendere l’uomo vivo. Sembra che la terra resista, che gli attrezzi sfuggano, che il sole pesi sugli uomini. Come nel più torbido estate.

Il corpo morto, ricoperto da una mantellina, è abbandonato sul terreno. La sua testa pesa sulla piazzuola di una bombarda.

Ma è giunta l’ora di abbandonare la dolina.

L’aiutante maggiore Cerniti, dall’ospedale, è salito in una corsa sola al suo posto di combattimento.

Anche il Carso può far nascere, in certi uo­mini d’animo generoso e giovane, sentimenti nostalgici. L’aiutante maggiore, mentre mi accom­pagnava amabilmente verso la prima linea – dove andavo a raggiungere la mia compagnia – confessava: – Se stavo ancora un poco all’ospedale, mi ammalavo di malattia mentale. Anche di notte, sognavo i camminamenti e i ricoveri del Carso.

Questa invidiabile natura di uomo è stato fe­rito, ha meritato medaglie ed encomi, ma non è ancora sazio di emozioni guerresche. Di que­sti giovani, sani di corpo e di non accesa fan­tasia, io ne ho quassù contati molti. Chi li ha educati alla guerra, chi ha dato loro questa fer­mezza di carattere e robustezza di nervi?

Ma quello che più mi dispiacque fu, in tale occasione, l’abbandono della dolina.

Mi pareva che fosse un poco mia. Vi avevo dormito tre notti, avevo cooperato a darle una sagoma. Di più: quell’aspetto di lindura era mio. Io comandavo, ogni mattina, che si facesse pu­lizia, che tutto fosse in perfetto ordine.

Scoppia una granata, a questo ferro arrabbiato facciamogli trovare gli uomini a posto. Ne avre­mo un danno, ma mediocre.

Quando ho sorpassato il bordo della dolina e la ho guardata di lassù, qualche palla mi fischiò alle orecchie, ma io ebbi tempo di abbracciare con uno sguardo la mia creazione e di salutarla, commosso. Su una delle acacie, il forafratte cantava.

L’azione era imminente. Le bombarde erano pronte ad agire, i cannoncini da montagna s’erano incastrati nelle trincee di seconda linea, per battere la prima linea nemica, le fanterie rice­vevano ordini.

Passò un giorno. Non ci rafforzavamo più, perché si sapeva che tra poco – forse a distanza di ore – saremmo balzati fuori, come un solo uomo, all’assalto.

Io pensavo al viso rosso e infuocato dell’honwed incontrato sull’altopiano di Asiago, e consideravo dallo sbocco offensivo la porzione di terra neutra, che ci divideva dalla trincea nemica.

Le pietre, i ciuffi d’erba, il reticolato pare­vano accostarsi, gli uni agli altri, con desiderio di consultarsi. Forse per domandarsi se fosse pos­sibile uno scontro tra uomini, in quel terreno e in quel punto. E dirsi che sarebbe stato un bel vedere: baionette che luccicano, uomini che cor­rono e cadono, corpo a corpo violenti.

Sulla sera, volli scendere nella dolina. Dicevo tra me: – Domani c’è azione. Forse non vedrò più quelle acacie pendule, i muricciuoli candidi come denti; o li vedrò da una barella, sulla quale il mio corpo farà la sua ultima altalena.

Ma io non pensavo che, nella dolina, poteva esservi il mio capitano. Il quale combatte bene, guida bene, ma è burbero: – Che fa qui? – ha urlato. – Crede di es­sere ancora aiutante maggiore? Ritorni con il suo plotone.

Ma io non rispondevo.

Quella non era più la mia dolina. Le bom­barde si erano lasciate soffocare da vere torri di sacchi, i ricoveri attorno erano frantumati, le acacie spezzate, i muricciuoli caduti.

– Vede? – mi disse il maggiore. – Oggi è stata una giornata di quelle dure. Abbiamo avuto molti morti. Sono caduti, proprio qui den­tro, sette od otto marmittoni di grosso calibro.

La dolina, ora, era di tutti. La gente soprav­venuta aveva tolto il bell’ordine che avevo dato io, e le granate sconvolto quel poco che vi era rimasto.

Dalla tomba dell’artigliere da montagna, la croce era scomparsa. Il corpo riaffiorava alla superficie. Sullo stesso piano, ai bordi della fossa, che aveva dato la terra per i sacchetti, giace­vano allineati altri morti.

Erano i miei port’ordini di ieri, il comandante delle bombarde, un sergente che sapeva scri­vere le novità con bella grafia.

La dolina era proprio un cimitero, con quei muricciuoli abbattuti, le acacie diramate, i sac­chi sparsi dovunque e sventrati, e quella lunga fila di corpi spenti.

I superstiti avevano l’occhio umido e atterrito e si appoggiavano al bordo più alto della do­lina. Come se volessero sfuggirla.

Ho detto allora al capitano: – Ha ragione. Io non ho nulla da fare quaggiù.

E tornai al mio posto.


Il giorno dopo, e i seguenti, il nemico continuò a sfogare in quel luogo la sua ira torbida.

Noi avanzavamo, cacciandolo da una trincea all’altra, da una fossa all’altra.

Quando scendemmo di nuovo, la mia com­pagnia, ridotta di numero, ma ebbra di aver vinto – ogni soldato aveva il suo trofeo e mar­ciava cantando – transitò sui bordi della do­lina.

Era quella la mia dolina di pochi giorni prima?

Non si riconosceva più. Un casino! Sac­elli sventrati, sassi, terra, ferro e indumenti gri­gio-verdi.

I morti, che erano stati posati sul terreno, con mano delicata e fraterna, avevano preso le pose più strane, sconvolti dai successivi colpi di gra­nata. Le acacie sopravvissute piegavano verso terra i rami, in abbandono disperato.

Ma il mio ricovero era tuttavia quasi intatto. Io vi entrai, mentre il mio giannizzero bronto­lava: «Ma le pare questo il momento?», e se­detti su una panca, all’aperto.

I muricciuoli non formavano più attorno una cerchia dentata e candida; le erbe nane, che strisciavano tra muro e muro, erano state interrate; i ricoveri schiacciati. Era passata, a fior della dolina, una bufera, di quelle che solo la guerra conosce, annientatrici e distruttive.

Ma io non potevo andarmene.

Era una mattina di sole, il cannone taceva, sentivo l’aria sussultare nei suoi strati.

Le acacie chiamarono alfine il forafratte di un tempo. Non era morto. Tante cose erano morte, egli offriva ancora il suo cip-cip, frullando.

Le piante ebbero un brivido, la brezza le ri­destò. Fu come se la dolina rinascesse a nuova vita, parlasse. E mentre il giannizzero mi diceva:

– La quinta compagnia è tutta sfilata. Che facciamo, signor tenente? – io sentivo chiara­mente, nel frusciare delle foglie, qualcosa che somigliava un addio.