La strada del Carso
Da Udine, il treno per Cormons partiva con un solo minuto di ritardo.
La strada nuova mi allettava molto; ma poiché sotto la tettoia della stazione, si moveva una folla varia e, in apparenza, gioconda, quel minuto d’attesa volli proprio goderlo.
Una bella signora non si sapeva staccare da un capitano alto, che era già equipaggiato per la prima linea. Egli aveva fretta. Quando si va alla guerra, non bisogna piangere – pareva che il capitano dicesse alla bella signora. E il suo sguardo rideva, sebbene i suoi baffi rialzati tremassero lievemente.
Alcuni soldati, guardati da due carabinieri, canticchiavano.
La sala d’aspetto pareva vuota: ma ogni tanto l’uscio a vetri si spalancava, e un borghese, un soldato, un ufficiale si lanciavano verso il treno, che già storceva i freni per andarsene.
C’è il sole di settembre. Scialbo, apparentemente stracco; ma che sembra desideroso di non lasciarci.
Questi soldati che vanno a combattere non hanno visi, né di morenti, né di rassegnati. Qualcuno va per la prima volta e lo scuote una grande curiosità di vedere i luoghi, dove altri ha combattuto: San Michele, Sabotino, Podgora, Sei Busi.
Quelli che vi ritornano, rigustano i giorni della pace, trascorsi in paese. E pensano: dopo tutto, posso ancora scamparla.
Una donnetta sui quaranta – scialle friulano, canestro sotto il braccio, coralli al collo – è salita, mentre il treno si decideva, fischiando, a partire.
Sospira e siede.
Il figliuolo è all’ospedale di Cormons. Ferito, malato, ella non sa. Ma corre a vederlo. Ciocche di capelli bianchi le ventagliano il viso. Ella non le raccoglie. Tutta la sua attenzione è concentrata sul canestro, che ha posato delicatamente sulle ginocchia, su cui tiene le mani incrociate.
Il treno va, lungo lungo, snodato, tagliando i campi friulani con sbadataggine. Lunghi filari di vite, rotti dalla via ferrata, pare aspettino che il treno passi, per ricongiungersi al filare, che corre al di là della linea. I pioppi, che camminano a braccetto sui fossati acquitrinosi, al passaggio del treno, stormiscono.
La donna non guarda fuori del finestrino, come noi. Giuoca con le dita sulla tela, che ricopre il canestro, e tace. Un unico anello – il matrimoniale – le scorre sulle dita scarne.
Non destiamo in lei curiosità alcuna. Alle domande, risponde in fretta e sopra pensiero. Il sole, entrando dal finestrino, la pizzica sul collo, sulla fronte. Ella non fa nulla per ripararsene. Una mosca, presa nel raggio, comincia a camminarle sul petto: dal petto, le salta sulle gote, e sembra compiacersi di quelle rughe fonde, che conducono alla bocca umida e semiaperta.
Ella non ne avverte il fastidio.
Ad ogni stazione, le sue labbra hanno un sussulto. E domandano: Cormons?
Io non so se fu la presenza della donna o la stanca pianura che si attraversava: ma quando udii i guardiafreni pronunciare «Cormons», mi parve di uscire da una stremante stanchezza. Ancora un poco di quella pianura o di quella donna e avrei pianto.
Anche i miei compagni non avevano viso allegro.
La stazione di Cormons brulicò subito di una folla enorme. Gli ufficiali cercavano i facchini, e facchini non c’erano. Ma fuori, un carro aspettava le nostre cassette. Siamo dunque attesi, si ha cura di quelli che salgono a prendere il posto dei caduti.
Fummo afferrati da una gran gioia di vivere e di camminare. Ma i soldati, che andavano e venivano, e i borghesi della piccola città, nessuno ci degnava di uno sguardo e di un saluto.
Ufficiali che vanno alla guerra? Ma è cosa di tutti i giorni; e non crea stupore in alcuno.
Dopo ogni offensiva, ne giungono a centinaia.
Chi sono?
Nessuno se ne cura. Vanno: ciascuno con il suo numero, la sua assegnazione, il suo posto pronto. È giovane, è ammogliato, ha un figlio che a casa lo aspetta?
Queste, sono stazioni di transito.
Quando arrivano le maglie, o i cappotti o le giberne c’è una stazione che li raccoglie, un ufficio che li distribuisce, e ufficiali, maglie e giberne, tutti camminano, senza far parola, verso la mèta, che è sempre un reggimento, un battaglione, una compagnia, la prima linea.
A Cormons c’è molta polvere. E gli autocarri sembra che godano a sollevarla e gettarcela addosso. Che importa se noi abbiamo la tenuta di guerra, ancora fresca di ago e di stiratura?
Il Carso, penserà la terra di lassù a macchiare il grigio-verde lucido e terso!
Bisogna cercare il Comando di tappa.
Ma aver fretta è da balordi. Conviene piuttosto respirare ancora un poco l’aria tranquilla di un paese, sorbire un caffè e comperare qualche ricordo.
Siamo otto sottotenenti, non tutti egualmente giovani. Sappiamo di andare alla guerra, e ciascuno ha superato, per conto suo, lo stadio dell’incertezza, del dubbio, della paura. Ora, il morire pare che sia una cosa prossima, di giorni, di ore, di minuti: tutto sta saper cogliere bene l’intervallo tra l’oggi e il domani, se intervallo ci sarà.
Ti pare che il sole sia un poco torbido. È, infatti, sole settembrino.
Ma puoi rischiararlo con la buona volontà, come faceva la donnetta del treno, cui né sole, né mosche, né voci turbavano i pensieri che masticava dentro.
Alla casa, non si pensa più: è lontana, lontana, una cosa morta.
Ti attaccheresti perdutamente a quella fontana che canta, perché ti pare che dovrà sempre cantare, anche quando tutti gli uomini del mondo saranno morti.
Conversi con le signorine dei negozi. E più sono sgarbate, più ti compiaci del colloquio. Avresti bisogno che qualcuno ti infastidisse, che il tuo amor proprio fosse scosso, che da queste case di Cormons uscisse un uomo dalla voce tanto grossa e insolente da farti scattare. Ma non sai se, per difenderti, useresti la rivoltella o le lacrime.
A mezzogiorno, ti ricordi che devi compiere qualche cosa. Ma non sai bene che. Forse bisognerà mangiare. Il cibo e il vino ristorano lo stomaco e rinvigoriscono lo spirito.
Ma vediamo, prima, questo comando di tappa.
Ne ricordo un altro, lontanissimo, in Asiago. Ma, allora, ero soldato e fui trattato maluccio. Io guardavo quei signori con tanta bontà, ufficiali e soldati, addetti al comando. Mi parevano uomini di una specie umana più elevata. Ma essi ebbero, per me, parole assai crude e gesti rudi d’impazienza!
Ora siamo ufficiali. Deve essere un’altra cosa.
Attraversiamo una piazza, dove le donne vendono arance e fiori, insalata e scarpe per bambini, ed entriamo in un androne.
C’è un maggiore degli alpini e molta gente in grigio-verde che va, viene, discorre, discute.
Alle due, parte il camion.
Una notizia laconica: ma ogni spiegazione è superflua. Il resto è conosciuto.
Il camion andrà verso Gradisca, attraverseremo un ponte sull’Isonzo e poi, su, correre e correre fino alla prima linea.
Due ore, in cui bisognerebbe, proprio, guardarsi bene l’un l’altro e considerare a fondo queste case, queste botteghe, i ristoranti, i caffè, le donne.
Pesa pigliare la penna in mano e scrivere alla famiglia. La stilografica nuova stenta anche a ricevere l’inchiostro. Non ha proprio voglia di vergare le belle bugie: sto benissimo, massima tranquillità, al fronte si vive come papi.
Il cielo è terso, ma, scialba ancora e quasi invisibile, a sommo dell’azzurro, è apparsa l’esile falce della luna.
Stanotte la rivedremo, meno pallida, lattea, ed ostenterà una sfacciata luce.
Al ristorante, ci hanno dato da mangiare. Ma che pigrizia! Portare il cibo alla bocca, con queste braccia tronche, è davvero una difficoltà.
Verrebbe la tentazione di dire al cameriere, che ha la faccia tanto allegra e rubiconda: cotesto cibo che ci dispensate sarà certo ottimo, ma non va giù. Perché non ci imbocchereste, come bimbi? Noi vi daremmo, giovinotto, una squisitissima mancia.
Scoccano le due. Ci mettiamo, con i pacchetti delle cose comprate a Cormons, in marcia verso il garage. Abbiamo guardato con simpatia, uomini, donne, cristalli di vetrine. Persino alla brutta statua di Massimiliano offrimmo un pensiero affettuoso: – Che la fortuna ti tenga a lungo sul piedistallo, austriaco della malora! Tu non hai, come noi, una terra malferma sotto il piede.
Sul camion, sono già saliti alcuni capitani, che hanno forse la nostra stessa destinazione.
Ci presentiamo. Nello stringere quelle mani, di uomini già assuefatti alla guerra, ci sentiamo quasi più forti e più capaci.
La guerra: mezz’ora di strada nella polvere, traballando sulle cassette, e saremo su terreno di combattimento.
Fumiamo molte sigarette.
Lo chauffeur spinge il suo 15ter in mezzo a carri ed ingombri, con meravigliosa audacia. Egli pensa forse che, delle nostre vite, non si debba fare gran caso. Noi siamo destinati al Carso ed è così difficile riportare indietro degli ufficiali ancora sani dalle linee del San Michele, di Doberdò, dei Sei Busi!
– Qualcuno potrà anche ritornare – pensa lo chauffeur – ma sarà così malconcio, che io posso anche sprecarlo prima, in una brusca voltata.
Ma noi vorremmo invece giungere lassù proprio sani. L’andatura pazza dello chauffeur ci mette di malumore e in angustia.
Nessuno parla; ma tutti desiderano di giungere presto e di scendere.
Lassù, c’è il Carso e ronza la mitragliatrice. Ma la strana altalena, che pure si svolge tra campi ridenti, da cui non si scioglie odor di morte, a lungo andare, è divenuta tormentosa e rodente.
I pioppi, presi nelle folate di polvere che il camion solleva, scompongono, al nostro passaggio, la loro pettinatura.
Quell’arruffarsi delle foglie suona quasi come un saluto.
Ecco i paesi, le case, le osterie della guerra. C’è ancora qualche donna sugli usci. I bimbi battono le mani.
Sullo sfondo, appaiono le prime alture, dove i nostri soldati si annidano e combattono.
Il San Michele, con le sue groppe gibbose, è appena una collina.
Non pare quasi che abbia dovuto costare tanto sangue e tante cannonate.
Ora bivaccano lassù i vincitori, i cocciuti fanti d’Italia. Ma, con quelle pietre bianche e i suoi radi cespugli, il San Michele è troppo umile giaciglio per chi, sgominato il nemico, avrebbe bisogno di un serio riposo.
Lo chauffeur avverte che Gradisca non è più troppo lontana.
Incontriamo una mandria di buoi. Col passo pesante ed ubriaco, che già ebbero sui campi dei paesi pacifici, essi, al nostro passaggio, si disperdono.
Anch’essi vanno alla guerra. Ma se per noi c’è il dare e l’avere e alla morte forse taluno sfuggirà, i buoi non possono nutrire eguale speranza: essi dovranno tutti cadere sotto la mazza del macellaio.
Casermoni, baracche, ospedali. Gradisca è una cittadina molto vivace.
Il camion si arresta bruscamente su una piazza larga, alberata: di metropoli.
Ripensiamo alle botteghe di Cormons. Prima di salire, potremo forse anche qui fare acquisti, veder qualche donna, respirare aria non sconvolta dalle artiglierie.
Ma è una illusione. Gradisca è sull’Isonzo, fino ieri era costellata dai ta-pum dei Cecchini. E oggi, battuta dalle artiglierie, non ha una bottega aperta, né una casa abitata.
Il silenzio è grave. Sui soldati che camminano, lenti, sui carabinieri fermi nei crocicchi, pesa, l’atmosfera s’abbatte.
Poche e rade parole pronunciamo. Un soldato si carica delle cassette, mentre lo chauffeur sbuffa intorno al motore. Il suo viso è turbato. Egli non ha più la fermezza di poco prima, quando si lanciava perdutamente tra carri e case, in cerca della via.
No, il motore non si accende.
Egli non sa spiegare il caso strano e inconsueto.
– Avete avuto una gran fretta, figliuolo: ed ora cotesto bestemmiare contro la scalogna mi allieta molto. La strada poteva essere allungata da voi, se lo aveste voluto. Perché noi si andava a morire. Voi l’abbreviaste per tornare il più presto possibile tra le belle di Cormons. Ben vi sta, ben vi sta.
Il Comando di divisione è in una villa ben guardata. Anche qui, ufficiali con la sigaretta tra le labbra e il sorriso affettuoso tra i denti: «Strada breve. Quattro passi da Gradisca al ponte. Qualche volta è battuto, ma a “tempo”. Sarete subito a Sdraussina, dove vedrete una filanda diroccata. Di lì, sale la strada che va al Cappuccio. Mezz’ora».
Ma non tutti abbiamo uguale mèta… Due capitani sono assegnati al 19° fanteria, che bivacca sul San Michele; un terzo al 20°, che è tuttora nel vallone.
Ci salutiamo.
Augurarsi, che cosa? Nessuno osa dire all’altro: di non morire.
Diremo: di tornare. Anche malconci, storpi, ridotti a mezzo, ma rivedere il paese dove nascemmo, il focolare dove l’acqua ancora bollicchia e il ceppo rosseggia, la mamma che lavora alla calza e mormora tra sé, come in sogno: che farà, ora, mio figlio?
Lasciamo, sulla nostra destra, il mastio – morso qua e là dalle granate – della fortezza di Gradisca. Penso alle guerre gradiscane, al fervore combattivo di questi luoghi, in altri tempi.
Le case di Gradisca sono quasi tutte sgretolate. Distinguo i segni della scheggia di granata da quelli prodotti dal colpo di fucile.
Qualche cane, al nostro passaggio, abbaia.
Salmerie muovono verso il ponte: lente, grige, di gente che vada in processione.
Ed ecco l’Isonzo.
La passerella succhia l’acqua che corre limacciosa. Sul cielo fresco, la piccola falce lunare irraggia una morbida occhiata di luce.
È caduto il sole verso il mare. E l’Isonzo pare voglia gettarsi in mezzo agli ultimi colori, che si azzuffano tra l’alberato di Sagrado.
La filanda è immensa: ma devastata dai colpi e quasi senza tetto.
L’ufficiale di vettovagliamento del nostro reggimento ci accoglie con effusione. E ci offre del mistrà, in una tazza vasta, come una conca.
Bisogna bere e non pensare.
Anche qui si muore ogni giorno. Ieri, erano bombe di aeroplani, stamane, tre colpi da 152. Spring-granate – dice il nostro collega.
Bombe, spring-granate, colpi di mitragliatrici, tiri a tempo: tutte cose che conosceremo. E che uccidono.
Un soldato si offre di guida.
Piglieremo una scorciatoia, e, dopo dieci minuti di salita, saremo lassù, al reggimento. Domani le nostre facce, miste alle altre, sembreranno anche di veterani.
Dopo i primi passi, tra cespugli e abeti nani scapitozzati dai colpi, incontriamo una croce.
Portiamo inconsciamente la mano al berretto.
– Se lor signori intendono salutare ogni croce, quante volte dovranno condurre cotesta mano al berretto! Ogni pietra e cespuglio nascondono quassù un soldato italiano.
Discorso molto triste. E la sera cade con estrema lentezza. Quante croci dovremo vedere prima di giungere?
La terra è rossa, morbida. Cede sotto il passo, come carne frolla. E la scarpa comincia ad incrostarsi. Le pietre aguzze, bianche o grige, imbrigliate nei reticolati, bevono, con avidità, la ruggine che il ferro secerne. Tratto tratto, si è costretti ad un salto: è una trincea, un camminamento, un cunicolo. Nel fondo, stracci, gavette frantumate, fiaschi rotti, scatolette vuote di carne in conserva.
L’erba, nei corridoi bui, non nasce più. Solo qualche felce di colore smorto, accoglie ancora, nella prima alba, rugiada: e stilla, sul mezzogiorno, lacrime.
Brandelli di ferro rugginoso, caricatori di ottone, cartucce qua e là; e, incastrate tra i sacchi di terra – che vomitano un fango rosso, come sangue – casse di fucili schiodate, elmetti sforacchiati, scudi da trincea.
Questa è la guerra. E buon per noi che vi passiamo, cianciando.
Ma lassù, oltre il Vallone, c’è ancora terreno vergine, senza questi segni di passaggio e di conquista.
Un’ultima zona boschiva di abeti e di acacie, abbandonati sulle radici scoperte, e siamo all’accampamento.
– 47° fanteria?
– 47°.
Sentinelle, lumi, un vociar disuguale e scomposto. Sotto le tende, brulica una folla di fanti. Ma nessuno si accorge di noi.