Oppacchiasella bel suol d’amore…
In luogo sicuro e di riposo, i sensi nostri avevano ripreso la loro attività, i nervi riacquistato elasticità, i ricordi poco lieti s’erano annebbiati, ma rientrando, dopo una pausa di molti giorni, nell’atmosfera della guerra, diventiamo tutti nervosi.
Ma è cosa di un minuto. Come giunge l’uomo della mensa, col cartoccino del pranzo, lo stomaco comunica a tutti i vasi sanguigni il suo compiacimento: e corrono frizzi e risate. Anche i soldati, seguendo l’esempio degli ufficiali, estraggono dai tascapani le provviste. Una corrente di buon umore circola dalla coda alla testa della colonna.
– Che dirà Cecchino, nel rivederci?
– Piglierà, come in agosto, le gambe in ispalla?
Un sergente della 5a compagnia canta sull’aria della canzone di Tripoli:
Oppacchiasella
Bel suol d’amore…
Il maggiore Mantellini è sceso dal mulo, rifiutando con disgusto la pigra cavalcatura. Quando il battaglione parte e quando arriva, è sempre silenzioso; ma, durante il tragitto, parla, discute, s’accalora, ride, anche se il suo cammino è accompagnato da una pioggia di shrapnels. Un uomo, come altrettale non ne conobbi: calmo, fermo, saldo sulle sue gambe magre e nervose, come un centauro. Ma le partenze, il movimento, le pratiche di accantonamento o di accampamento, lo disturbano e lo irritano. Quando passò l’Isonzo nel giugno 1915 con la sua compagnia (era allora capitano) pensava tanto ai suoi uomini – che nessuno restasse indietro, che i comandanti di plotone avessero alla mano le squadre, che si giungesse alla sponda opposta, ordinati – che mancò poco non affogasse. Ebbe allora la sua prima medaglia d’argento.
Nel Vallone, un sottotenente ha preparato i ricoveri per il battaglione. Ma ce ne vuole per persuadere i fanti che, da questa a quella tana, entra una sezione di mitragliatrici e non può prender posto la tale o tal’altra compagnia. Il fante sa che è arrivato e non vuol chiacchiere: cerca un buco e si addormenta.
Voci varie di timbro e di dialetto s’incrociano. I comandanti di compagnia sbraitano, gridano, afferrano per le gambe i soldati più sornioni che, protetti dall’ombra, hanno cercato un posticino a modo e tengono già il sonno pei capelli. I subalterni cercano anch’essi i propri uomini, urlando, chiamando i capisquadra, scacciando gli intrusi di altre compagnie. Chi s’attenta accendere il sigaro sente cento voci, vicine, lontane che gridano: spegni, spegni!
Sui bordi del Vallone, i razzi salgono svelti e rapidi, come brividi. Un battaglione del nostro reggimento avrà forse a quest’ora raggiunte le trincee e dato il cambio alla Brigata Regina. Noi siamo di rincalzo e saliremo domani, qualche ora prima del combattimento. Ma i fanti avrebbero preferito prender posto stassera in prima linea. Le marce d’avvicinamento dei rincalzi costano, nelle giornate calde, enormi perdite: soprattutto sul Carso, dove il nemico conosce le sinuosità dei camminamenti, le bocche delle doline, il giro tortuoso dei sentieri, e li tempesta senza tregua di colpi.
Ma che notte di perfetto riposo! Abbiamo dormito un limpidissimo sonno. Le artiglierie hanno urlato tutta notte e nel Vallone c’è stato passaggio di direttissimi fino all’alba. Noi non abbiamo udito né fragori né scoppi. Il sole settembrino s’è sporto sul Vallone, con la faccia tosta dei tempi di pace. Ma le nuvole gli fanno cortina, come a nascondergli quel che si prepara per la grande giornata.
L’ordine di operazione stabilisce l’ora meridiana per l’assalto. Noi dovremo raggiungere Oppacchiasella due ore prima.
Il battaglione è già in ordine di partenza. Ogni ufficiale è col suo reparto. Dopo il rapporto breve di stamattina, ciascuno ha, dinnanzi a sé, definiti e limpidi, gli ordini.
C’è forse bisogno di scriverli? Il maggiore ha detto: i comandanti di reparto prendano appunti. Ma nessuno ha obbedito. Ci sono dei momenti, quassù, in cui la mente vede con tanta chiarità, che le idee affiorano materialmente ai margini dei nervi, e ce le sentiamo vive nel sangue.
Un sorriso tranquillo ai soldati, uno sguardo d’incitamento ai graduati. Si sale. Il maggiore, in testa alle compagnie, imbocca, col suo stato maggiore, il sentiero che mena a Oppacchiasella. Si accelera il fuoco dell’artiglieria. Tutto il Vallone si scuote in un fremito, che par di saluto e incitamento.
Avanti!
Ogni tanto, un miagolio di shrapnels nemico s’intrude nel Vallone. Gli austriaci sentono, confusamente, che oggi è giornata attiva e cercano i rincalzi, frugano le doline e le forre, dove sanno che si nascondono le nostre artiglierie.
Ecco Oppacchiasella. Non ha quasi mutato da che la lasciammo, diroccata, contorta, mangiata dentro e fuori dagli scoppi delle granate. Quando vedemmo, tanti mesi fa, il suo nome sulla carta, si pensò a un paesino, lucido, gaio, soleggiato, con donne che si sporgessero ridendo dagli usci, belle, giovani, tutte per noi. Ma quando fu raggiunta nelle giornate di agosto, invano, attraverso le occhiaie delle sue finestre e dei suoi usci, si cercò una persona viva.
– Che paese è mai questo? – chiedevano i fanti. Nessuno sapeva dirlo. Se ne erano incontrati tanti dal San Michele in poi, nella corsa ansiosa verso Trieste! Ma, dietro Oppacchiasella, aveva cominciato d’un tratto a solfeggiare la mitragliatrice e, tra muretto e muretto, scivolare i «gattoni». C’era una trincea: preparata forse in una notte di lavoro febbrile; e chissà che covo di mitragliatrici nel lungo fosso scoperto! Nova Vas, sulla collina a destra, apriva i fianchi monchi delle sue cascine, e che sforzo i cipressi di lassù a nascondere tanta rovina!
Da Nova Vas, da Costanievica, dal Pecinka le artiglierie nemiche battevano tutta la zona circostante. Oppacchiasella, che si era già aperta come una conchiglia, sotto le granate italiane, pareva ora adergesse i suoi muri diroccati, per rovinare tutta sotto le artiglierie austriache. I suoi mattoni, sotto gli scoppi, sprizzavano in alto, per ricadere, micidiali, sulle truppe italiane ricoverate nelle doline. Anche il cimitero, il sonno delle sue pietre sepolcrali non poté conservarlo. Le granate scendevano, furiose, a morderlo e sconvolgerlo.
Ogni rifugio di truppa era rovistato e battuto.
Noi salivamo per essere vicini a quelli che avrebbero fatto l’assalto: pronti a scagliarci in ondata, qualora il loro impeto non avesse subito travolta la difesa nemica.
Lo spostamento delle compagnie si svolge con una precisione, che strapperebbe un «bravi» al più pignolo dei comandanti di brigata. E pure i camminamenti, dal cimitero alla dolina dei bombardieri, dove lasceremo due compagnie, sono colmi di acqua e fango, e bersagliatissimi dall’artiglieria. Cade un uomo, i portaferiti lo trascinano via, se vivo; e gli altri, curvi, ansanti, si spingono l’un l’altro.
Si levano voci concitate:
– Avanti, avanti!
– Fate presto. Non pensate ai feriti.
– Correre, correre!
Gli uomini si tendono nello sforzo della corsa. Sulle prime, si tentava posare il piede su qualche pietra, per non camminare nell’acqua, ma a poco a poco ufficiali, soldati, il maggiore stesso, guazzano nel fango che gorgoglia, quasi infastidito. Gli occhi degli uomini, tra timorosi e curiosi, guatano i bordi del camminamento. A ogni sibilo, le teste si abbassano, come per un comando, simultaneamente. Qualche graduato grida: – Bassi, bassi!
Il fuoco diventa sempre più violento. Gli austriaci, che si sentono stringere alla gola dall’acceleramento delle nostre artiglierie, immaginano che l’azione sia vicina e i rincalzi si approssimino. Granate e shrapnels scoppiano rabbiosamente su tutta la zona, che soprastà al Vallone: con un’intensità più febbrile nei dintorni delle Scuole d’Oppacchiasella, presso cui devono transitare le truppe, che operano sulla sinistra della strada Oppacchiasella-Costanievica. Il camminamento subisce qui una interruzione improvvisa. Siamo sui bordi di una dolina: – Di corsa, di corsa! – si grida.
Picchiano sul terreno, grandine violenta, le pallette degli shrapnel. Scoppi dilanianti si succedono a schianti rabbiosi. La rapidità e densità dei colpi è tale che par di correre in una atmosfera sibilante e bruciante, nella quale tu debba bere, ansimando nella corsa, da un minuto all’altro la morte. Oh, è pur terribile un assalto!, ma tu non ti senti squassare tutti i sensi insieme, quando la mitragliatrice dalla trincea nemica allunga verso te le sue pallottole frustanti. Essa dà bene la morte, ma la offre come un bacio.
Quanti morti e feriti! Ogni compagnia registra perdite. Il capitano Colombo della 6a è stato colpito. L’abbiamo incontrato, mentre si correva a saltelloni verso la dolina che ci doveva ospitare: pallido, ma con gli occhi ancora vivi sotto la fronte forte. Ha salutato i suoi soldati, mentre lo ponevano in barella. Pare che una scheggia di granata gli abbia leso l’intestino.
Ed ecco il tenente Morgante, le braccia a ventaglio, senza elmetto, correre verso il comando di battaglione: – Sono ferito, sono ferito!
Una granata lo ha seppellito, ricoprendolo di sassi e terriccio. Non è nulla. Ma che stordimento, che tramestio, che incalzar di urla, di rumori, di bestemmie! Il camminamento è ormai ridotto un ammasso di sassi e sacchetti. Qualche moribondo tira l’ultimo fiato tra quel fango, ma nessuno pensa a sollevargli la testa e soccorrerlo. Il maggiore ordina di uscire dal camminamento e di fare l’ultimo sbalzo in terreno scoperto. I soldati esitano un momento. Ma si riprende la corsa quasi subito.
Siamo giunti. Pareva che non fosse ormai più possibile raggiungere la piccola dolina, che presenta la schiena al nemico, offrendoci un discreto riparo! Come possiamo sedere, solo allora ci pare che le energie nostre sieno state assorbite per intero dallo sforzo immane. I superstiti sono tutti con noi.
Come se già al sicuro, i fanti si asciugano il sudore e accendono pipe e sigarette. – Sempre eguali, questi nostri ragazzi dai capelli quasi grigi! Quando hanno superato un pericolo, credono di aver risolto la partita. E anche in faccia al nemico, tirerebbero un sospiro di sollievo.
Non abbiamo – in quel caos di colpi e di grida – sentito il «Savoia!» dei nostri compagni del 1° battaglione: ma quante pallottole, che hanno fallito il bersaglio, si sono infrante sui sassi della nostra dolina!
L’artiglieria nemica s’accanisce sempre più: buon segno. I nostri vanno avanti e forse a quest’ora la trincea di Oppacchiasella è nelle loro mani.
Nella nostra dolina, il sole spazia sfacciato e hanno voglia le batterie austriache sputar qui il focherello dei loro shrapnels! Ce ne mandano a diecine, con un’ostinazione rabbiosa, ma, mezzi nell’ombra e mezzi nel sole, i fanti fanno ormai la voce ai colpi, che miagolando paiono recare qui il fiato rabbioso di chi li affida al meccanismo del cannone.
Nessun ordine fino a sera. Si può mangiare con una certa tranquillità. È tornato anche quel signore lento, calmo e bonaccione, che si chiama appetito, e che noi credevamo rimasto a Vizentini, in giro d’ispezione presso gli stomachi degli imboscati.
Anche Carnevali, sottotenente nuovo alla guerra e fresco di arie territoriali, si è affidato ai capricci della forchetta, riprendendo allegria.
Un bel vedere, quando sono scesi i primi Cecchini prelevati dal 1° battaglione. I nostri fanti li tiravano per le braccia e interrogavano. Pareva loro impossibile non ci fosse una lingua per capirsi e intendersi, com’è uso della gente per bene. Quei «Ja ja» muovevano taluno a riso, talaltro a rabbia. Chi scagliava dietro i prigionieri una bestemmia, chi calcava loro la mano sulla spalla, col fare confidenziale di un amico che ha trovato un amico e dice: «Eccoti finalmente!»; o con l’albagia spagnolesca di un conquistatore che pone il palmo sul suo maggiore nemico e dice, a labbra semichiuse ed occhio soddisfatto: «T’ho preso; sei mio!».
Buone notizie dell’assalto. Gli austriaci hanno resistito, ma non a lungo. Abbiamo conquistato centinaia di prigionieri, mitragliatrici, lanciabombe. Bottino e poche perdite. Ma la Brigata Marche, che si collega con noi, sulla strada di Oppacchiasella, non ha potuto avanzare. Pare che il fortino di Nova Vas sia ancora intatto, ed esso nasconde tante mitragliatrici che assalirlo in quelle condizioni sarebbe follia.
Attenderemo che giunga il buon momento.