Ore 11 e 10

Il comandante di compagnia mi ha chiamato. Ha in mano l’orologio e fa il cenno ch’io già conosco. Vuol dire: – Correggi coteste sfere. Debbo darti l’ora uf­ficiale.

È l’ultima parola dei grossi comandi. Quando si annuncia l’ora ufficiale, puoi avere fame o sete, sentire il cuore balzare con impeto nel petto, le vene scandire rapide il sangue: biso­gna rassegnarsi a morire.

Fumiamo una sigaretta. Una specie di vertigine ci stordisce e fa tremare. Gli occhi, in quel cerchio bianco, ch’è l’orologio, vedono un mondo che s’annebbia, che sfuma, che s’allontana; le mani stringono, nervose, le carte d’operazione e topografiche; le gambe smaniano; un brivido intermittente scuote e sommove tutto il sistema ner­voso.

Bisognerebbe non perdere un minuto di questa follia incosciente, di quest’accensione involontaria e magica delle fibre, e scattare.

Ma è giunto un contrordine. Non più alle 11, ma alle 11 e dieci. E si aggiunge: – I reparti marcino in formazione serrata, fuori dei camminamenti.

Il nemico deve, questa volta, essere colpito a fondo. Bisogna che i suoi occhi – gli osserva­tori – vedano una massa enorme sboccare dalle pietraie nude: una vera fiumana grigio-verde, che, dilagando, minacci di superare tutti gli ostacoli.

Dice il mio comandante di compagnia: – Ho bisogno di sapere che cosa abbiamo davanti. Se una dolina o il campo aperto, e se c’è reticolato intatto da evitare. Vuoi andar tu? C’è, sulla nostra sinistra, un imbocco di cam­minamento: ti guiderà. Se senti sparare, abbas­sati e nasconditi. Non farti ammazzare stupida­mente.

Ebbi la tentazione di portare con me Tognana. Ma non avevo più voglia di ridere, come qual­che momento prima. La notte insonne gravava ancora sulle mie palpebre, la testa mi pesava, l’elmetto mi gonfiava le vene della fronte e della nuca, costringendole quasi a sanguinare.

Ho scelto il caporalmaggiore Palumbo.

La nostra artiglieria ha allungato considerevol­mente il tiro. Sono le undici, meno dieci.

Venti minuti ancora, e questi sacchi a terra, questo muro a secco, che ci presta ora difesa e ricovero, non saranno più nostri. Il mio attendente ha già pronte le robe e si dispone a seguirmi.

– Resta, gli dico.

Scostiamo alcuni sacchetti, e, facendoci pic­coli, imbocchiamo il camminamento d’approccio.

Qualche pallottola fischia subito al di sopra delle nostre teste.

Il camminamento è un rigagnolo. L’acqua di questi giorni s’è data tutta convegno qui dentro e ci bagna fino alle ginocchia.

Dice il mio graduato: – Giungiamo fino a quella betulla, allo svolto. Di là, potremo vedere.

Il nemico spara ora a granata. I colpi sembra­no, scoppiando, voler raggiungere chissà quale altezza, coi loro coni densissimi.

La betulla è smilza e senza foglie. Ma ci na­sconde. Abbiamo davanti una dolina, munita di qualche sacco a terra e di un cunicolo. Non rie­sco a capire, se è un posto avanzato o una piaz­zuola per mitragliatrici. Il nemico non c’è. Certo, si raccoglie nelle caverne sottostanti, pronto a scattare al primo avviso telefonico.

I reticolati sono sconvolti e i varchi non man­cano.

Traccio in fretta uno schizzo della posizione. Ma non c’è ormai tempo da perdere. Sono le undici, meno un minuto. Riordinare il plotone, preparare lo sbocco, io dovrò fare a pugni col tempo per essere, all’ora segnata, al mio posto.

I miei soldati s’ammucchiano sull’orlo della trincea, rassegnati.

Ora, non c’è proprio più nulla da fare. Gli sbocchi sono pronti, ciascuno ha la baionetta ina­stata, il pugnale alla cintola, le bombe a mano nel tascapane.

Ho detto ai soldati: – Due squadre seguiranno me, nel primo sbocco. Appena fuori, si aprano a ventaglio, con un movimento rapido, prima che il nemico abbia tempo di puntare le mitragliatrici; le altre due, comandate dal sergente, escano dallo sbocco di sud, compiendo uguale manovra. Nessuno si sperda.

Una pausa.

L’orologio segna le undici e quattro minuti:

– Nessuno deve morire – conchiudo, con uno sforzo di voce e di sorriso, che meraviglia anche me –. Se ci si getta sul nemico come un sol uomo, e di sorpresa, egli non farà forse a tempo a colpirci. Facciamo delle brutte facce, ragazzi miei, e Dio ci aiuti!

Mi getto, primo, sullo sbocco, rotolando al di là della trincea, come una palla.

Il cappotto mi ingombra, il ferro spinato, sparso a matasse sul terreno, mi costringe a salti, manovre e mosse di saltimbanco.

Mi volgo. Dietro di me, vedo un soldato solo: il caporalmaggiore Crisolli, che ansima, e grida, con voce roca, strozzata.

E gli altri?

Sibilano le palle intorno. Le mitragliatrici ora ronzano tutte, con una regolarità di macchine, mosse da motori.

Gli altri miei uomini, eccoli. Sono tutti usciti dallo sbocco di sud. Si sono aperti a ventaglio, come ho ordinato; ma il loro urlo mi giunge fioco, stento, bolso. Devio nella mia corsa e cerco di raggiungerli. Ma il terreno è così ingombro, che sono costretto a cercarmi un passo cammi­nando carponi.

Scoppia una granata nel gruppo più folto. Vedo un corpo balzar alto e ricadere dimezzato. Uno straccio morto.

Ma ecco finalmente la trincea. Le mitraglia­trici, che riempivano l’aria di sibili e sbuffi, non sparano più e le grida di poco prima sembrano spente.

È sopraggiunta come una pausa, un silenzio concorde.

Nel tratto di trincea, ove penetriamo, non c’è traccia di nemici. Troviamo solo una mitraglia­trice smontata e alcuni morti. Ma, più a nord, vediamo austriaci a diecine che si arrendono e corrono verso le nostre linee arretrate. Lassù c’è Nardone, il mio comandante di compagnia. Cor­ro subito da quella parte. I miei soldati mi se­guono, curiosi.

Il mio collega Manera, rosso come un gambero e con le mani insanguinate, mi racconta che ha dovuto lottare in un corpo a corpo furioso: «Appena giunto sulla trincea avversaria, mi affacciai sul parapetto, guardingo. Ma una ma­no ferrea ecco che mi abbranca il fucile. Cristo, come tirava!

Resisto disperatamente; ma sento che, se non cedo, colui mi strapperà le braccia, o, forte della leva che gli presta il parapetto, mi trascinerà nel suo fosso.

Udivo, ma confuse e come lontanissime (erano invece a due passi) le voci dei nostri soldati.

Dicevano: – Prigionieri, prigionieri!

Tentai un supremo sforzo. Abbandonai, d’impeto, il fucile, e balzai sui sacchi a terra della trincea.

Biondo, sbarbato, un austriaco cadeva all’indietro.

Uno, due, tre colpi. Non so bene quanto durai a sparare. Ma ricordo che, a un certo mo­mento, l’uomo riverso non si muoveva più. San­guinante, con sul viso i segni della lotta du­rata e uno strato lieve di rossore, l’honwed pa­reva morto. Ma io gli fui ancora sopra, col calcio della rivoltella scarica, picchiavo sulle sue spalle, sul suo petto. Come impazzito».

Il giannizzero di Manera interviene nel di­scorso. E dice: – Lo sa quello che lei brontolava su quel po­vero morto? – Brontolava: «Volevi dunque togliermi a mia madre, razza di bastardo! Muori, muori, muori».

Andammo a vedere l’honwed. Bocconi sul fos­so, il moribondo arrossava ancora i sacchi a terra: e il sangue, spicciando dalle ferite del collo, gorgogliava: glu glu. Ma egli era duro. Non moriva.

Come dimenticare il soffio agonico di quella gola spezzata?

Nardone mi dice: – Ora, vai, cercati i tuoi uomini.

Ma i miei soldati erano tutti scomparsi. Girai attorno gli occhi, con la stanchezza di un ebbro.

Buffa, a due passi da me, seduto su un tascapane, beveva. La borraccia, cui le sue labbra attingevano, era austriaca e pareva legata in ar­gento. Al sole, brillava come un diamante.

– Perché non mi aiuti a chiamare gli uomini?

E Buffa non rispondeva.

Chiesi: – Dove sono i tuoi compagni?

Non avevo più la mia rivoltella. Poiché in terra non c’erano armi, ma solo un alpenstok, afferrai il bastone puntuto e dissi a Buffa:

– Muoviti, andiamo a cercarli.

Buffa mi seguì, come un cane fedele. Qualche granata scoppiò in pieno sulla trincea conquistata. Gli austriaci addensavano ora il fuoco sulle loro posizioni perdute.

Ritrovai ad uno ad uno i miei uomini. Qual­cuno s’era installato nelle caverne austriache, ricche di ogni ben d’iddio, ma, scovato, non ho dovuto gridar troppo, per ricondurlo in linea, con gli altri.

Tognana è al suo posto. In una caverna, ha trovato una borraccia di rhum e mi confida che egli, come port’ordine, sarà perfetto.

Accarezza la borraccia con la mano e con la voce. Ad ogni granata che scoppia, esclama: – Barba, che colpo!

Il fuoco di mitragliatrici e di fucileria è ora talmente intenso, che non ci possiamo più muo­vere.

Abbiamo inviato nelle retrovie centinaia di prigionieri. Nardone ha tolto ad ognuno un ricordo. È carico di bussole, di medaglie, di em­blemi. Ma i plotoni sono assottigliati. La morte ha mietuto tra noi con larghezza.

Ho cercato invano il caporalmaggiore Grisolli. Mi dicono che una granata l’ha scagliato contro un muretto, con le cervella in frantumi.

I cinque figli non lo vedranno mai più.

Ma non è tempo di rammarichi.

Diceva il maggiore Mantellini, quando funzio­navo da suo aiutante maggiore: – Lei si commuove troppo. La guerra, è fatta di sacrifici, e chi la tocca, leva. Stia di buon animo, figliuolo, e pensi ad ammazzarne più che può.