Tognana

Il mio soldato Tognana ha compiuto oggi un gran passo. Ha sparato a bersaglio e gettate, per istruzione, un paio di bombe. Burberamente, pri­ma che stropicciasse la bomba sull’accenditore, il capitano gli ha domandato: – Tognana, hai forse paura?

E Tognana: – Signor no.

Ha ripetuto «Signor no» due o tre volte. Ma tremava.

Pare rapito di peso da una ribalta di un caffè concerto di terzo ordine.

La recluta. Berretto sugli occhi, piote larghe, giubba vasta. Sul suo faccino da bimbo, si ve­dono appena due occhi, che paiono sempre ad­dormentati. Se non fosse chiuso in quel grigio­-verde, farebbe quasi pena. È nato nelle calli di Venezia, e, se non sbaglio, il cattivo odore delle acque dei canaletti deve avergli fatto cercare il vino fin dalla sua prima giovinezza: perché ora, a 36 anni, le sue mani tremano, e tutta la sua persona è un poco cionca.

Gettate le bombe, ha stropicciato le mani, soddisfatto. Gli pareva di essersi liberato da un incubo grave. Ma il capitano gliene ha affidata un’altra: la granata a racchetta. Ordigno leg­germente complicato. Tognana ha tirato tuttavia la corda con una certa disinvoltura. Ma quan­d’ha visto che un po’ di fumo, uscente dalla racchetta, lo investiva, s’è dato alla fuga. Lan­zavecchia l’ha afferrato per la giacca e gridato: – Hai paura?

– Signor no, signor no! – ha esclamato.

C’era, nella sua voce, la supplica di chi ha dato più di quanto poteva. Era ansante.

– Ritorna al tuo posto – gli comandai.

E Tognana andò, col suo passo molle, tra le file. Tutti i soldati ridevano.

– Ora ti daremo la signorina!

– Diciamolo al tenente.

– La bomba incendiaria, quella incendiaria!

Egli guardava con gli occhi melensi e non ri­spondeva. Aveva sofferto cinque minuti di vera pena; ma non sorgeva in lui nessuna forza di repulsa, contro i compagni che tentavano di prolungargliela.

Un port’ordine ha scompigliato le file.

S’è fermata tra le mani del capitano una carta. Sebbene quelle mani non tremino, i soldati hanno capito che la notizia giunta è tutt’altro che gaia.

– Rompete le righe! – gridano gli ufficiali.

E il capitano, chiamati i comandanti di plo­tone della sua compagnia, ha letto: «Alle cinque di sera del 5 ottobre, cominceranno a muovere le compagnie per portarsi in linea. Marciare in fila indiana».

L’ordine del comandante di battaglione non poteva essere più chiaro. Ma fu una diana poco gradita! L’aria del Vallone aveva calmato i nervi e fatto quasi credere che il Comando non pen­sasse più all’avanzata. I soldati fanno presto a fabbricare notizie. Secondo gli ultimi telegrammi del fante, c’erano otto reggimenti sul Bosco Cap­puccio, pronti a dare il cambio alla nostra e alle altre brigate; perché l’azione avrebbe dovuto farsi con truppe fresche. Quanto al nostro reg­gimento, esso avrebbe cambiato fronte.

Sogni. La fantasia del soldato in guerra si ac­cende con estrema facilità: il più piccolo ap­piglio alla speranza fa nascere fatti nuovi e straor­dinari, che poi si risolvono in delusioni pro­fonde.

Abbiamo pensato a tutto? I comandanti di compagnia scorrono con gli occhi il taccuino. Ci sono i dischi, c’è la ghirba per l’acqua, sono state distribuite le bombe. Fatto l’appello del nostro reparto, portiamo al capo l’elmetto e ci prepariamo al cammino.

Ancora è giorno. A onde sottili, la nebbia di­scende sulla cresta della collina di Oppacchiasella. I soldati le dicono: «Cammina, piccola neb­bia bella!».

Qualcuno mette in musica una canzoncina:

Nebbia nebbina vien da me

ti darò quel che vuoi te…

La nebbia ci toglie alla vista del nemico, ma ci impedisce di «tenere alla mano», come dice il maggiore, i nostri cinquanta uomini. I quali salgono a combattere ormai rassegnati; ma è così facile sperdersi nelle doline e nei cammi­namenti del Carso!

Attraversiamo Oppacchiasella, tra un sibilar sinistro di pallottole. Qualche palla cade morta tra le nostre gambe o si frantuma sui muri delle case.

Tutti vorrebbero correre e, come accade quan­do si ha fretta e si è in molti, ci si urta, si cade, rischiando di perdere il collegamento con quelli che ci precedono.

Siamo arrivati in linea a mezzanotte. Ho tro­vato la posta; ma in linea, e di notte, come ac­cendere un fiammifero? Il mio giannizzero si sarebbe fatto in quattro per vedermi aprire la lettera e divorarla, ma, mal pratici come siamo della posizione, sarebbe folle far luce.

Notte bianca. Gli uomini non devono dormire, ma anche l’ufficiale deve essere sveglio. Un freddo umido mi stringe le ginocchia e me le morde. La testa mi pesa. Chiamo i cari lontani: mia moglie, mio figlio, mio padre, mia madre. No, non mi dolgo di averli lasciati. Confusamente sento che, se io oggi offro tutto, domani mio figlio dovrà godere, quale esso sia, un be­neficio.

Ho fatto bene a non dormire. È venuto verso le due l’ordine di movimento. Alle 5 di domat­tina comincierà l’azione delle bombarde e noi dovremo spostarci, lasciando in trincea alcune vedette.

Trascorrono lunghe ore. Il silenzio è retto dai sibili delle pallottole e da qualche granata, che gli austriaci lanciano ogni venti o trenta minuti sulle retrovie.

Il mio attendente dorme. Povero Rechiche! Quando lo vedo seguirmi, con il doppio carico della mia e della sua roba, questo contadino ca­labrese, strappato dal suo «giardino» com’egli chiama il suo podere, provo una stretta al cuore. Penso a un asinello docile, che un padrone senza cuore conduca a morire, dopo averlo gravato di una soma immane.

Alle cinque in punto, ordino di discendere nella dolina.

– Dove si va?

– Si cambia posto?

– Giorno d’azione, signor tenente?

– Avanzata?

Voci note e care. Non rispondo. Dico solo due parole: – Far presto!

I capi squadra scuotono i dormienti. Franceschiello li aiuta, con i modi rudi che gli sono soliti. È il soldato più attivo del mio reparto. C’è una fatica da sostenere? Si chiama Franceschiello; e quando il turno è compiuto e gli si domanda «Sei stanco?», egli risponde: – Nun ce pienze!

E continua a lavorare. Ha tale buona volontà, che posso contare su di lui incondizionatamente.

– Franceschiello, vuoi andare di pattuglia?

– Signor sì.

– Hai paura?

– Nun ce pienze!

E sorride. Ha un sorriso mezzo scemo, ma buono.

– Franceschiello, come mi chiamo io? – gli domandai una volta.

Egli è stato in forse qualche minuto: indi, ha risposto con una crollata di spalle.

– Ebbene? come mi chiamo?

– Nun ce pienze!

Non vuol faticare di memoria; si accontenta di dare il lavoro delle sue braccia e di obbe­dire ciecamente ad ogni comando. È siciliano. I compagni lo interrogano sulle cose del suo paese e di casa sua: ed egli risponde, come se parlasse di luoghi e persone ormai fuori di lui, che non lo riguardino.

– E tua moglie?

– Nun ce pienze!

– Ma se ti tradisse, con qualche bel giovane di laggiù?

Gli trascorre negli occhi una fiamma di im­provvisa ferocia. Con il braccio destro compie il gesto di percuotere.

– Ma tu non l’ammazzeresti, se ti facesse trovare un bel bambino, Franceschiello!

– Taglierei la testa a Caterina.

– E al bimbo?

– Povero innocente! Che dovrei fargli? Lo piglierei fra le braccia!

Franceschiello è l’unico del mio plotone che non sappia scrivere. Quando sua moglie gli manda a dire che vuol notizie, egli prega un compagno di squadra di scrivere a Caterina che lui sta benone, che non soffre la fame, che dorme. E se tutto andrà bene, come «Francesco Noto, vostro affezionato marito, spera e prega, un giorno ci rivedremo e riabbraccieremo».

– Franceschiello, da quanto tempo non ti scrive tua moglie? – gli chiedo qualche volta.

E Franceschiello: – Spano lo sa.

E rivolto a Spano: – Vincè, l’ultima volta?

Spano estrae dalla tasca un’agenda austriaca unta e lercia e cerca la lettera di Caterina Noto: – 3 ottobre.

– Sente? – dice con un sorriso di soddisfa­zione, Franceschiello – 3 di ottobre.

E, come tra sé, ripete: – 3 di ottobre! Spano lo sa.

Ci siamo rifugiati nella dolina. Le nostre bom­barde salgono su su, fin quasi a perdersi nell’azzurro. Rapidissime, tagliano l’aria come gia­vellotti d’argento. Somigliano, viste a mezz’aria, ai tubi Bettiga, che un nostro reparto lancia sui reticolati intatti, poche ore prima dell’azione. Penso al terrore degli austriaci che le vedono scendere a piombo sulle loro teste, quando ogni fuga è ormai vana.

Anche noi abbiamo provato lo spasimo atroce di una bomba, che precipitava verticalmente su di noi. Ma la bombarda da 240 dà in un tale urlo, quando tocca la terra, e diffonde con tanta violenza i suoi brandelli di ferro, che l’uomo deve spesso cedere allo spasimo della paura, pri­ma che a quello della morte.

Ho avuto l’ordine di lasciare quattro vedette a guardia della trincea. I soldati che scelgo mi seguono a malincuore. Non è la prima volta che qualche scheggia delle bombarde italiane rag­giunge la nostra linea e colpisce.

Ho appena appostato le vedette e mi pre­paro a ridiscendere nella dolina, quando una voce mi chiama: – Prigionieri, prigionieri!

Camminano verso la trincea nostra, con le braccia alzate. Sono due. A pochi metri dal no­stro sbocco offensivo, accelerano il passo. Hanno visto sollevarsi in alto tre bombarde e corrono per raggiungere la nostra trincea, prima ch’esse compiano la parabola di discesa.

Li accompagno dal capitano. I soldati nostri spalancano gli occhi e sorridono. Si ha l’impressione di aver vinto metà della prossima batta­glia. Risalgo verso la trincea. Chissà che, invitandoli, non ne venga qualche altro!

Eccone altri tre. Ma incerti, tuttavia. Alzano le mani e le abbassano, come a far cenno che si vada noi verso loro. Un altro volo di bom­barde li persuade a far presto; ma uno dei tre è colpito da una scheggia e si abbatte sul fianco. Gli altri hanno gli occhi sbarrati e le membra in sussulto. Chiedono qualcosa; ma non si ca­pisce che. Hanno sete, fame? Non compren­diamo. Il tenente, che comanda i lanciabombe, li interroga in tedesco: ma non hanno molto da dire. Affermano solo di essere romeni. Apprendiamo che, sul nostro fronte di attacco, sono schierate due compagnie. Troppo poche in ve­rità. Ma chi crede questi occhi azzurri, che na­scondono, sotto un’apparente limpidezza, la sub­dola e grossa astuzia del barbaro?

L’assalto è stato fulmineo. La 7a e l’8a compa­gnia, dopo la ricognizione delle pattuglie, hanno fatto lo sbalzo in avanti con fulminea rapidità. Poche perdite. Il nemico ha disturbato subito i conquistatori con fuoco accelerato di mitraglia­trici e lancio di mozziconi di gelatina. Si è abbandonato un tratto di trincea, che non si po­teva difendere e si è continuato il rafforzamento degli altri elementi di fronte.

È caduto un ufficiale, Lombardi. Giunto da poco, io non gli parlai che una volta. È morto, combattendo da prode.

Chiunque fosse, pace.