Vizentini

Seppelliti i morti, ufficiali e soldati si abban­donano ai piaceri della mensa. Sediamo su qual­che pietra, creando con le gambe in croce una eccellente tavola. I portatori di mensa snoccio­lano fuori le vivande, una dopo l’altra, con molta fretta. I loro sguardi ci spronano a divorare. Questo sole, che canticchia nell’aria con le al­lodole e sembra giovanilmente inseguirle, risplende ai loro occhi assai meno del lume ace­tilene, che illumina nel Vallone le loro funzioni di cucinieri.

Oggi noi siamo proprio di buon umore. Gli è che gli austriaci disturbano poco i nostri movimenti. Anche le loro vedette sembrano morte. Ed è così duro, nei giorni laboriosi, sen­tirsi costretti a camminare curvi e percorrere cen­tinaia di metri di corsa!

Si sa che l’azione può ricominciare da un giorno all’altro: ma il tempo ostacola il tiro delle artiglierie e forse i tre battaglioni del nostro reg­gimento faranno per qualche tempo la spola dal Vallone alla trincea, nel darsi il solito cambio.

Il capitano Di Lauro, salernitano, domanda sempre e a tutti:

– A facimm o unn’a facimm?

Azione vuol dire avanzata, avanzata suona pericolo, ma l’attesa dietro un riparo, con le molestie delle corvées, non è la più dolce delle vite; senza contare che ogni cinque giorni do­vremo prendere arma e bagaglio e cambiar po­sto. Una volta, gli austriaci lasciavano passare notti pacifiche, ma ora le deturpano con tiri con­tinui. Chi si sposta, non ha mai da guadagnare.

Il tenente Pollini ha le sue mitragliatrici piaz­zate verso la strada di Oppacchiasella e, di tanto in tanto, si diverte a scovare qualche «gattone», che attraversa di corsa la strada stessa. Se Pol­lini è il dio della mitragliatrice, Terranova ne è certo il profeta. Per questi due ufficiali, che co­mandano le due sezioni del battaglione, le armi non hanno segreti: essi le conoscono come il palmo delle proprie mani e le amano di un amore esclusivo ed egoistico. Ma dov’è Pollini, ivi è Terranova. Sebbene il primo sia di Milano e l’altro abbia respirato, dal primo giorno della sua vita, aria siciliana, s’intendono meraviglio­samente e, come i dioscuri, non si lasciano mai.

Scendono nella dolina. Quattro chiacchiere col maggiore, una scorsa rapida al giornale e, consumato il pasto, vanno su di nuovo, in trincea. Il maggiore sa farsi leggere nel viso gli ordini che vengono dal comando. Pollini, quand’è ben sicuro di averli, negli occhi mobilissimi del superiore, acciuffati, li confida a bassa voce a Ter­ranova: – Il maggiore ha parlato poco. E ha un certo modo di guardare! Hai notato? Domani c’è azione!

Esprimono al capitano Di Lauro la loro im­pressione. Egli accende la sigaretta, si accomoda gli occhiali ed esclama, sereno: – E va bene!

Balestrino, capitano della 5a, scrive la sua cor­rispondenza. Ammucchia pagine su pagine, cartoline su cartoline: e poi, d’un tratto, come se si svegliasse da un sonno, chiama un port’ordine e lo manda a vedere che fanno i suoi co­mandanti di plotone.

– Guardare se sono a posto, se le vedette sor­vegliano, se ci sono novità.

Nardone, sottotenente siciliano e aspirante non so più a quale impiego di banca, comandante della 6a, non istà fermo un minuto. Egli ha una tremenda paura delle cazziate. Pare, a ve­derlo, che l’ora dell’assalto sia sempre immi­nente. Morgante invece fa, da buon subalterno, le fusa, come un gatto soriano: e si consulta coi soldati sulle intenzioni del comando supremo. Ci sarà o non ci sarà azione; e se ci sarà, perché non si fa muovere l’ala destra. I soldati gli ri­spondono a monosillabi, con la piena convin­zione che egli dica cose giuste.

Ma Morgante bisogna vederlo, col suo faccione rotondo di frate, quando il maggiore lo chiama per dargli un incarico.

La sua voce è chioccia e tremula, i suoi occhi dolci dolci.

– Comanda, signor maggiore!

– Morgante – gli dice il maggiore, lei deve andarmi di pattuglia.

– Va bene, signor maggiore.

La sua voce diventa sempre più tremula. E il pingue viso s’imporpora.

Il maggiore gli affida il compito, con un’espres­sione patema e buona. E conchiude: – Ha capito bene che cosa deve fare? –.

E Morgante: – Sì, signor maggiore –.

Le parole battono contro le labbra ed escono un po’ fioche. Ma Morgante ha capito. Calmo calmo, con il suo testone, che l’elmetto male incappuccia, fa il suo bravo saluto e s’incam­mina.

Ma dice tra sé: – Non aveva nessun altro, il maggiore? Stavo così bene nel mio ricovero, tra le coperte e la borraccia del caffè!

Parisio, sottotenente territoriale ed enologo ap­passionato, cerca stagnare gli interstizi del muretto-trincea, sognando le ragnatele delicate di una cantina gonfia di botti. Paolucci, più mo­desto, pensa ai fiaschi della mensa, e si abban­dona, nella dolina dov’è il plotone di rincalzo, a piccole libazioni di marsala e caffè commisti: una sua singolare passione.

Alla 5a i subalterni confabulano tra loro. Pieragnoli, la persona donchisciottesca mal chiusa nella divisa di soldato, ha sparacchiato tutto il giorno; ma i suoi occhiali a staffetta sono me­diocri conduttori, soprattutto quando il nemico è nascosto. Non ha colpito un austriaco solo. Lanzavecchia dichiara di aver fatti cadere parecchi «gattoni». Ma il suo sergente afferma di aver visto sacchetti barcollare, non uomini. Lanza­vecchia tuttavia non si dà vinto. Quando rac­conta le sue prodezze, è come se giurasse e si spezzerebbe la testa contro il muro, pur di aver ragione.

Un brutto tiro gli giocarono il giorno in cui un plotone del nostro reggimento ed uno del 48° ebbero l’ordine, per arrotondare il fronte, di in­camerare una dolina. Lanzavecchia che operava col suo plotone, giura di aver messo lui il primo sacco a terra sul bordo della dolina conquistata. Dicano pure i maligni che egli, procedendo con giusta cautela dietro il sacchetto, non poteva ve­dere l’operazione sollecita e svelta del sottote­nente comandante dell’altro plotone: Lanzavec­chia è fermamente convinto di aver subito un’in­giustizia. La dolina ha assunto il nome dell’altro comandante di plotone, e quel nome ha ora l’onore di allungare le sue lettere sulle carte topografiche.

Il turno di trincea è finito. Stasera discen­diamo nuovamente nel Vallone. È stato ferito l’aiutante maggiore in prima del reggimento, ma pare che nessuna arteria del collo sia lesa.

Io ho perduto un soldato dei miei migliori. Una faccia che non dimenticherò. I suoi occhi, guardando, pareva quasi che chiedessero mercé. Quando lo interrogavo, sentivo battere il suo cuore sotto la tunica rude. Quell’uomo nascon­deva un dolore: e pure sorrideva quasi sempre.

Le pupille azzurrine tremavano talora, io non so se di simpatia umana o di commozione. Quando gli domandai se avesse moglie, rispose con dol­cezza: signor no, quasi gli sembrasse che aver moglie potesse costituire ai miei occhi una colpa ed egli fosse orgoglioso e lieto darmi conferma del contrario.

Era veneziano e si chiamava Giuseppe Annoè. I suoi occhi, nel morire, devono essersi chiusi con lo strazio lento e tragico di un agnello sgozzato. Gli abbiamo scavata una fossa pro­fonda, e sulla croce scrivemmo il suo nome: unica sepoltura, forse, in questi dintorni, che chiuda un corpo solo. Che le granate nemiche non turbino il sonno del mio soldato!

Si scende al Vallone, per risalire a Oppacchiasella tra quattro o cinque giorni. E pure quanta gaiezza e che passo svelto, di bersaglieri!

Il piccolo paese di Vizentini, co’ suoi ricoveri che, visti dall’alto, sembrano piccionaie, dorme, al lume delle stelle, un sonno pacifico. Tutto il giorno, un brulichio, tra le sue case, di uomini e carri e automobili: un’animazione, che dà al villaggio aspetto di festa o di sagra. Le venti case che lo compongono pare che non abbiano mai sentito la guerra. Non un muro abbattuto, non una buca di granata, non segni dell’unghia nemica. Intatto. Ma gli si appoggia a ridosso un cimitero vasto, dove le croci corrono a per­dita d’occhio e sembra non finiscano più. Gli austriaci hanno messo in fila, lì dentro, tutti i loro morti del Carso, come se vivi: disciplinati e divisi per grado e reggimento. Ogni croce reca in stampiglia il nome, il corpo, il distretto del soldato caduto, con la giusta data della morte. Sono centinaia e centinaia. Se la mia fantasia tenta risuscitarli, li rivede, lanciati all’assalto, mantenere, nei plotoni affiancati, la stessa riga o lo stesso posto, che i superiori hanno loro dato da morti.

Ma anche il nostro cimitero ha le sue croci ordinate. Noi seppelliamo in fretta, ma, quando gettiamo le ultime badilate di terra sui cadaveri, diciamo loro, a promessa, un «Torneremo». Gli austriaci seppellirono con comodo nel Vallone, finché fu in loro potere il sistema difensivo del San Michele, ma oggi anch’essi debbono fare le cose alla lesta.

A Vizentini, riordineremo i plotoni, istruiremo i complementi nel lancio delle bombe a mano, prepareremo gli animi alla prossima azione. Il maggiore insiste su un concetto solo: baionetta; parla di un’arma sola, «la baionetta»; e ci fa capire che, se il nemico attacca, non devono es­sere le mitragliatrici a fermarlo, ma la baionetta.

Il generale è venuto a vedere i suoi uomini. Ma li ha trovati nel momento più critico, du­rante la distribuzione del rancio. Il maggiore cor­re, strilla, cerca di fare un po’ d’ordine.

Fiato buttato. Il fante ha altro che il generale per la mente! Bisogna, in questa faccenda, es­sere svegli: gavetta e tazza alla mano, occhi aperti sulle mani dei graduati distributori. I ca­morristi abbondano quassù, anche più numerosi che nelle caserme.

Dar l’attenti, in questi frangenti, è come get­tare becchime a galline che ne abbiano d’avanzo.

Ma il generale è di buon umore. Con le brac­cia tese, dice: – Continuate, continuate. – E sorride.

Faella, un napoletano della 5a, ha appena por­tato alla bocca la prima cucchiaiata, che sente posarsi una mano sulla spalla. È una mano gentile.

– Buono, eh? – gli chiede il generale.

Faella non dice né sì né no.

Il generale gli domanda il cucchiaio. E as­saggia il rancio.

– Ottimo! – esclama.

E, rivolto a Faella: – In verità, il governo non ti tratta poi male. Scommetto che, se non venivi in guerra, un cibo come questo non l’avresti mai assaggiato.

Faella volge sornionamente lo sguardo verso il superiore e pronuncia a voce bassa. Come tra sé: – Sor generale, nun dicite fesserie!

A Vizentini, possiamo ancora riunirci a men­sa. Il capitano Balestrino ha trovato cumuli di posta e si abbandona, occhi e penna, sulle car­toline in franchigia; il capitano Grossi, della 7a leggermente ingrassato, dopo il taglio dei suoi baffi biondi, gira con le mani in tasca da un ri­covero all’altro; il capitano Di Lauro tormenta le sue lenti e allarga il petto, come una bella donna. Siamo tutti in vena di raccontarne; e Lanzavecchia tenta ripetere a mensa il racconto della dolina conquistata.

Ma i colleghi non lo lasciano parlare:

– Sei un venditore di vasetti!

– A chi vuoi darla a bere?

– Chi era sindaco quella volta?

Lanzavecchia brontola, abbuiato, parole scon­nesse e si chiude in se stesso.

Cinque giorni di Vallone ci hanno ridonato energia e buon umore. Abbiamo mangiato di nuovo i maccheroni caldi e fatto saltare qualche tappo. Riacquistiamo tutti la parlantina della ta­vola, per incanto. Anche i taciturni, come Sgar­rito, lasciano filtrare, tra i denti, qualche frizzo e sorriso. Sgarrito ha fatto anche di più: ha cantato. Una vocina di grillo con un sentimento di siciliano. Gli occhietti piccoli gli scintillavano come se, cantando, egli votasse negli occhi i suoi ricordi, i suoi amori, tutta la sua giovi­nezza.

Ora non è più. Una bombarda nemica lo ha ucciso.

Egli era, col suo plotone, nella dolina che si addossa alla linea. I suoi soldati, affamati e stan­chi, aspettavano il rancio, brontolando. Egli li teneva fermi attorno a sé con la parola e lo sguardo.

Era buono e leale. I suoi fanti credevano in lui, perché non era capace di quelle bugie o di quelle frasi, che taluno si lascia spesso scap­pare per tener calmi gli animi. Egli non diceva: – Domani andremo a riposo. Siamo dunque, per oggi, forti e pazienti –.

Diceva la verità e tremava con i suoi uomini. Ma non di paura.

Quand’eravamo a tavola, sul Cappuccio, egli ricordava così l’ultimo combattimento sul San Michele (e gli occhi gli lucevano, come per feb­bre): – La più grande, la più dolce e insieme la più terribile ora della mia vita fu quella che vissi, quando conquistammo la trincea Vicinan­za. Con le mani, con le rivoltelle, con i fucili, si sfondava il tetto della trincea avversaria. Gli austriaci, sentendoci così sopra, non sparavano più. Qualcuno, sotto quella pioggia di bombe a mano, urlava: «Bono taliano!». E noi si rideva, si piangeva, si gridava. Era­vamo, tutti, come pazzi –.

Ora anche Sgarrito è morto.

Il rancio era appena arrivato. Fumavano le marmitte tra le croci della buca. Le gavette dei fanti rilucevano. I primi raggi di quella stanca aurora non potevano riscaldare i corpi oppressi: ma il rancio – oh sì! – avrebbe riscaldato.

Quell’affollamento intorno alle marmitte non piacque però al capitano Grossi. Il quale disse a Sgarrito: – Disciplini cotesta distribuzione.

E Sgarrito, con le parole e con le braccia, s’era fatto in mezzo ai fanti.

– Uno alla volta, ragazzi. C’è da mangiare per tutti.

Aveva appena pronunciate queste parole, quan­do una bombarda (nostra o austriaca?) preci­pitò in quel folto.

Uno schianto terribile, e, subito, urla, gridi, gente che fugge all’impazzata.

Tra le croci divelte e le marmitte rovesciate, una trentina di corpi giacciono, dilaniati.

Alcuni, feriti, tentano rialzarsi, ma ricadono, urlando di dolore; altri sollevano la testa e trag­gono l’ultimo respiro. La terra, tutt’intorno, è rossa. Il sangue scorre tra gavette e pasta rove­sciata, confondendo il suo vapore a quello della vivanda.

Sgarrito giace bocconi. Una gamba gli è stata staccata di netto. Egli allunga la mano verso la gamba tronca e, con un soffio: – La mia gamba, la mia gamba! – mor­mora.

Lo misero subito in barella. Ma non parlava più.

Potrò io dimenticare la sua persona adagiata nella barella, le mani in croce sul petto? Lo chiamai, ma egli non mi riconobbe.

E nessuno poté ridargli quella vita ch’egli, dopo la morte del fratello in guerra, aveva con­sacrata a sua madre. Ho ancora, negli occhi, l’impressione di quel corpo che, affondato nella barella, pareva di un peso immane. Era ormai l’abbandono dell’agonia. Ho quasi il rimorso di non aver fatto mai nulla per lui; di non avergli dato un mio libro, un ricordo, un fiore. Io l’ho appena salutato morente.

Nel Vallone, il capitano ha fatto preparare le brande per se e per i suoi subalterni. Siamo in una grande buca, tagliata rettangolarmente sul terreno molle e rinforzata col legname. Ema­na dalle tavole infradiciate un tanfo che fa groppo alla gola. Ma siamo al coperto.

Il tetto di lamiera lascia filtrare un’acqueruggiola motosa, che sa di cadavere.

Si scende per una scaletta che scricchiola, pro­vando l’impressione di penetrare nella chiglia di una vecchia barca male catramata.

I topi danzano sulle coperte, scivolano tra branda e branda, invadono i nostri tascapani.

Le candele, frignando, spandono in quell’an­tro umido una luce bluastra, che stacca le pareti e sembra voglia farcele cadere addosso. E pure, appena fa sera, con quale gioia ci rifugiamo lì dentro!

Ciascuno di noi ha qualche storiella da rac­contare. Il capitano, chiuso nel suo sacco a pelo, ascolta e ride forte. Lanzavecchia, che, appena giunto nel Vallone, ha fatto acquisto di una grande bottiglia di Strega, vorrebbe spegnere subito il lume. Ma il capitano non permette.

– Se lei spegne il lume, liba senza risparmio. E domani mi manda a sfascio il plotone. Io non le impedisco di bere, ma beva alla luce.

Lanzavecchia si schermisce: – Non ho questa intenzione, signor capitano.

Ma quando vede che qualcuno di noi cede al sonno o ha lo sguardo perduto sul giornale, allunga le mani e tracanna.

Samperi, che finge sempre, o di dormire o di leggere, dà allora l’allarme.

– Uh, uh!

Balziamo tutti a sedere:

– Egoista!

– Screanzato!

– Ubbriacone!

Il capitano, con viso serio, grida: – Lanzavecchia, a me quella bottiglia!

– Signor capitano!

– A me, dico! A forza di ingozzare, lei mi diventa un benzinaro, come Tognana.

Lanzavecchia tenta un sorriso:

– Se vuol favorire!

– Favorisco, un corno! Mi porti quella bot­tiglia o la ficco dentro, sciagurato!

Samperi, Pieragnoli ed io imbastiamo subito un coro diabolico:

– Benissimo!

– Bella fine, il benzinaro!

– Ti puzzano i baffi?

– Uh, Uh!

Lanzavecchia scende di letto, scalzo e in mu­tande. Afferra la bottiglia quasi piena, le dà uno sguardo di inesprimibile simpatia; indi si avvia, calmo calmo, verso la branda del capitano: – Non è mica inquieto, vero?

Ma il capitano fa ancora il viso burbero: – Conosce il regolamento di disciplina?

– Signor sì.

– Lo rilegga – continua il capitano, strap­pandogli di mano la bottiglia e mettendola sotto la sua branda. Domani mi dirà poi come debba comportarsi un ufficiale combattente.